Trump affossa il Tpp e nell’Asia-Pacifico si arrangiano con il Rcep

di Dario Rivolta * –

Se escludiamo gli addetti ai lavori, in pochi hanno prestato la dovuta attenzione al documento firmato ad Hanoi il 15 novembre scorso e sottoscritto da quindici paesi dell’Asia-Pacifico. Si tratta del più grande accordo di libero scambio mai avuto al mondo e riguarda, sommando i PIL dei partecipanti, il 30% del PIL mondiale e il 30% della popolazione del nostro pianeta. I Paesi firmatari sono: Cina, Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud e i dieci Paesi già membri del Asean, cioé Tailandia, Singapore, Filippine, Indonesia, Brunei, Laos, Malesia, Myanmar, Vietnam, Cambogia. Il nome, riassunto nella sigla RCEP, è Regional Comprehensive Economic Partnership ed è il frutto di trattative durate otto anni. All’inizio dei negoziati vi partecipava anche l’India che si è tuttavia ritirata nel 2019 dichiarando il proprio timore di una esagerata competitività delle aziende cinesi che avrebbe potuto mettere a rischio il mercato interno attualmente coperto dai produttori indiani.
Teoricamente sarà destinato a diventare il maggiore mercato al mondo ove le merci potranno raggiungere senza barriere doganali due miliardi e ottocento milioni di consumatori. Per ora l’avverbio “teoricamente” va mantenuto poiché il documento sottoscritto si ripromette di ridurre i dazi solo progressivamente ma limitandosi al momento al 65% delle merci importate ed esportate all’interno della regione. Entro il 2040 l’obiettivo è di raggiungere il 90%. L’accordo non è ancora in vigore e diverrà operativo solo quando tutti i firmatari lo avranno ratificato. I settori ipotizzati nel primo stadio sono le telecomunicazioni, i servizi finanziari, il commercio elettronico e i servizi professionali. Su quest’ultimo punto un aspetto importante è che ogni Stato si impegna a riconoscere le qualifiche professionali riconosciute dagli altri paesi membri dell’intesa e ciò aprirà le opportunità di spostamento per svolgere la propria professione ad avvocati, medici, dentisti, e a qualunque altro professionista. Un altro aspetto molto importante è la clausola detta “rules of origin”. Ad oggi le possibili esenzioni doganali bilaterali riguardavano solamente i prodotti che non contenevano componenti di paesi terzi al di fuori dell’ASEAN. Quando il RCEP sarà attivo, i componenti non faranno più la differenza purché provenienti da un qualunque paese membro. Ciò significherà che per evitare le tassazioni alle importazioni, tutte le aziende dell’area saranno invogliate a cercare subfornitori tra i Paesi associati e non al di fuori della regione. Questo fattore assume una certa importanza per le società subfornitrici europee ed americane che si troveranno ad essere penalizzate nei confronti dei concorrenti locali.

Durante le negoziazioni fu soprattutto il Giappone, timoroso della potenza economica cinese, ad insistere affinché l’India facesse parte dell’accordo. L’intenzione era di poter contrapporre gigante a gigante. La rinuncia di Nuova Dehli lascia Pechino come l’unica più grande potenza economica e gli dà quindi un potere negoziale maggiore rispetto a tutti gli altri.
E’ indubbio che la firma di questo trattato costituisca per i cinesi una grande vittoria politica (quanto ai frutti economici si tratterà di verificarlo nel futuro con i fatti) che dimostra come la volontà trumpiana di “isolarla” sia fallita. Il fatto che Paesi come Giappone e Corea del Sud che hanno sempre avuto una rivalità economica accentuata con la Cina abbiano sottoscritto tutti insieme un accordo di questo genere dimostrano che “un certo ghiaccio è stato rotto”. Obama aveva immaginato di anticipare il possibile RCEP e di isolare la Cina mettendo in pista il TPP (Trans Pacific Partnership), che raggruppava 12 Paesi del Pacifico tra cui molti degli attuali firmatari. Con scarsa lungimiranza Trump non solo nel 2017 decise di non ratificarlo, ma addirittura iniziò dei contenziosi commerciali anche con i Paesi alleati, come la Corea del Sud e il Giappone, e con alcuni Stati volenterosi di diventarlo come il Vietnam. Risultato? Tutti i Paesi che avevano sottoscritto il TPP han deciso di continuare da soli dando vita al CPTPP (Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership).
Il valore di questo tipo di accordi commerciali, se funzionanti, non sta solo nel garantire un mercato scevro di dazi doganali, ma soprattutto nell’imporre al proprio interno standard e regole comuni valevoli per tutti i prodotti commercializzati, obbligando quindi i soggetti terzi ad adeguarvisi o a rinunciare del tutto a quei mercati.
Nonostante il successo politico ottenuto da cinesi, i risultati economici, seppur potenzialmente presenti, sono tutti da verificarsi. Innanzitutto a differenza del CPTP nelle regole dell’accordo di Hanoi non sono del tutto chiare le disposizioni sulla proprietà intellettuale né si fa cenno ad una qualunque normativa che prenda in considerazione le condizioni di lavoro e la salvaguardia dell’ambiente. Questi vuoti nell’intesa aprono la strada a possibili forme di dumping sindacale ed ambientale e ciò, almeno nei Paesi più sviluppati, potrebbe portare a reazioni di rigetto. Inoltre è risaputo che le barriere doganali non sono tutto perché esistono una quantità di ostacoli non-doganali che sono spesso utilizzati da molti per aggirare, senza infrangerli, accordi già sottoscritti.
Esistono poi altri interrogativi che difficilmente saranno risolti e riguardano lo schieramento strategico di alcuni tra i paesi coinvolti. La Corea del Sud da un lato, e l’Australia dall’altro, non avranno alcun interesse né intenzione di modificare il proprio posizionamento internazionale. La prima, se non altro fino a che continuerà a sussistere il pericolo costituito dalla Corea del Nord, la seconda poiché, accordo commerciale o no, continuerà a partecipare alle esercitazioni militari comuni con Stati Uniti, Giappone e India (il famoso QUAD). Esercitazioni che sono viste da Pechino come un “evidente fronte anti-cinese” (dichiarazioni di alti funzionari cinesi).

Che non sia tutto oro ciò che luccica è dimostrato anche dalle relazioni che continuano a essere molto tese tra l’Australia e la Cina. Il paese oceanico ha come uno dei propri principali mercati di sbocco proprio la Cina, ciononostante, non si è mai dimostrato tenero verso il mancato rispetto dei diritti umani nel paese del Dragone e ha fortemente criticato Pechino per la questione del Covid 19. Come si sa la Cina non è insensibile agli attacchi che gli sono rivolti su questi temi e proprio con l’accordo RCEP ancora caldo un alto funzionario cinese parlando con un reporter a Canberra ha dichiarato che “La Cina è arrabbiata. Se tu fai della Cina un nemico, la Cina sarà IL nemico”. Il Global Times, giornale nazionalista ispirato dal governo di Pechino, ha paragonato più volte l’Australia a “una cicca attaccata sotto la suola di una scarpa”. All’inizio del mese di novembre, per confermare il basso livello raggiunto dalle relazioni bilaterali, Pechino ha deciso di imporre nuovi vincoli di importazione ai prodotti australiani quali carne, orzo, cotone, carbone e vino per un valore di almeno 19 miliardi di dollari l’anno. In questi stessi giorni, con l’intento di fare pressioni sul governo di Canberra, l’ambasciatore cinese ha consegnato ad alcuni giornali australiani un dossier in cui venivano elencati 14 punti che Pechino considera oggetto di disputa con l’Australia. Indicandole come una serie di “mosse sbagliate”, la lista comprende la critica australiana agli interessi strategici cinesi in Hong Kong, Xinjiang e Taiwan, accusa gli australiani di intromettersi negli affari interni della Cina e di supportare la richiesta di Taiwan a diventare membro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Pechino enumera anche tra gli oggetti della disputa il bando verso il 5G cinese, le accuse (false?) di voler interferire nella politica australiana, la restrizione agli investimenti cinesi nel Paese e presunte limitazioni al lavoro dei giornalisti cinesi in Australia. Infine ha mostrato disappunto per il fatto che Canberra si sia unita al fronte di chi chiedeva una indagine internazionale indipendente sull’origine del Covid 19.
Resta evidente che il perdurare di questi contenziosi costituisca una spada di Damocle sull’implementazione dell’accordo di Hanoi e pone un’ipoteca sulla sua praticabilità. Ciò non ferma comunque l’azione diplomatica cinese che, il 23 novembre e subito dopo la firma del RCEP, ha manifestato la possibilità di richiedere di entrare a far parte anche del CPTPP, unendosi così agli 11 membri già esistenti. L’ipotesi sembra più una mossa diplomatica che una vera intenzione poiché in questo caso dovrebbe porre mano anche alle clausole che riguardano la proprietà intellettuale, alla tutela dei lavoratori e al finanziamento delle aziende di stato. A meno che, come già ha fatto con il WTO, si impegni ad accettare tutte le condizioni per poi regolarmente disapplicarle.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.