
di Giuseppe Gagliano –
Dopo oltre vent’anni di regime sempre più autoritario, in cui lo Stato è stato svuotato e piegato al volere di un uomo solo, la Turchia si risveglia. A innescare l’onda di proteste che ha attraversato il Paese da nord a sud è stato l’arresto del sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu. Ma la rabbia esplosa in piazza ha rapidamente travolto ogni limite: non si protesta più solo per un uomo, ma contro un intero sistema.
La piazza chiede democrazia, dignità, giustizia. E a guidarla, ancora una volta, sono i giovani. Gli stessi che nel 2013 avevano occupato il parco Gezi per difendere uno spazio verde e si ritrovarono a difendere la libertà stessa. Oggi tornano a sfidare un potere che non tollera dissenso, con slogan che riflettono un’angoscia profonda e una determinazione nuova: “Se bruciamo, brucerete con noi”.
Rispetto a dieci anni fa però qualcosa è cambiato. L’opposizione, a lungo silente o disorganizzata, prova a mettersi alla testa del movimento. Il partito socialdemocratico, pur con le sue fragilità, cerca di trasformare la mobilitazione in un progetto politico. La candidatura di Imamoglu, popolare, trasversale, credibile, era diventata il simbolo di un’alternativa possibile al regime di Erdogan. E forse proprio per questo è stato arrestato all’alba del 23 marzo, il giorno stesso delle primarie. La risposta della società civile è stata travolgente: milioni di voti in suo favore, in Turchia e nelle comunità della diaspora.
L’operazione contro Imamoglu è solo l’ultima tappa di una lunga campagna repressiva: sindaci incarcerati, partiti messi sotto accusa, libertà civili sistematicamente erose. Ma questa volta il gioco potrebbe sfuggire di mano a Erdogan. La reazione popolare non sembra placarsi, e la base giovanile che alimenta le proteste ha la forza di chi non ha più nulla da perdere.
Sono centinaia di migliaia, 2 milioni e 200mila secondo gli organizzatori, i manifestanti di oggi nel quartiere di Maltepe, sulla sponda asiatica di Istanbul, richiamati dal leader del Chp Ozgur Ozel, una maxi manifestazione dopo una settimana di proteste che ha visto l’arresto di oltre un migliaio di persone. La piazza non ne può più di Erdogan e del suo autoritarismo, della repressione sistematica che cancella intere classi dirigenti in ogni settore con la classica accusa di terrorismo, buona per tutte le stagioni. Tuttavia è stato proprio il leader del Chp, il 77enne Devlet Bahceli, a portare il leader del Pkk curdo, Abdullah Ochalan, a cercare la fine delle ostilità dopo decenni di conflitto violento e di attentati.
Nel frattempo l’Europa e gli Stati Uniti guardano con indifferenza. La Turchia, con il secondo esercito della NATO, è diventata un alleato troppo importante nel nuovo scacchiere anti-russo, per quanto il paese mediorientale abbia sempre saputo tenersi in equilibrio fra le parti. A nessuno conviene mettere in discussione la legittimità del presidente turco. Così i manifestanti vengono lasciati soli, come già accaduto altrove.
Eppure quanto accade ad Ankara e Istanbul riguarda anche noi. La Turchia è oggi un laboratorio vivente delle sfide della democrazia contemporanea. Come si può spezzare la spirale autoritaria? Come trasformare la rabbia collettiva in forza politica? La lezione è chiara: i partiti tradizionali, da soli, non bastano. Né lo sono le proteste episodiche. Serve un’osmosi nuova tra movimenti e istituzioni, tra passione e strategia.
I giovani oggi stanno tentando l’impresa più difficile: ridare vita a un partito esausto, logorato da decenni di compromessi e burocratizzazione. Stanno provando a trasformare un relitto in una barriera corallina, dove nuove energie possano generare nuove forme di rappresentanza. Non si accontentano più di simboli. Pretendono una politica all’altezza della loro intelligenza, della loro rabbia, della loro speranza.
Nel caos turco si nasconde una possibilità. Se riuscirà a radicarsi, a crescere e a sopravvivere alla repressione, questo movimento potrà indicare una strada anche per chi, in Europa e altrove, cerca risposte alle stesse domande. La posta in gioco non è solo il destino della Turchia, ma quello della democrazia nel XXI secolo.