di Giuseppe Gagliano –
Dietro la cortina della diplomazia ufficiale, si muove un mosaico strategico in cui ogni parola pesa, ogni passo è calibrato. I colloqui del 23 marzo tra USA e Ucraina in Arabia Saudita, seguiti oggi da quelli tra americani e russi, sono il segnale che qualcosa sta cambiando. Non siamo ancora al punto di rottura del conflitto, ma nemmeno in un congelamento passivo. La parola d’ordine è “tregua tecnica”, ma la posta in gioco è molto più alta: ridefinire gli equilibri nel Mar Nero, garantire la sopravvivenza energetica ucraina e soprattutto testare la volontà politica del Cremlino.
Il canale di Riad è stato scelto non a caso. Neutrale sul piano simbolico, accettabile da Mosca, utile a Washington per non esporre la trattativa a troppa luce mediatica. La presenza dell’inviato speciale Steve Witkoff e di funzionari del Pentagono indica un livello operativo-tecnico, ma il riferimento costante alla Casa Bianca segnala che la cabina di regia è presidenziale. Il messaggio di fondo è chiaro: gli Stati Uniti vogliono chiudere il conflitto, o quantomeno ibernarlo, entro la primavera. La data del 20 aprile, menzionata da Bloomberg, coincide con un passaggio religioso sensibile per entrambe le tradizioni cristiane. La tregua come gesto simbolico, prima che militare.
Ma se la forma è quella della “cessazione delle ostilità”, la sostanza riguarda soprattutto le infrastrutture critiche: impianti energetici, nodi logistici, grano e carburante. I colloqui puntano a ridurre la vulnerabilità ucraina e stabilire un modus vivendi navale nel Mar Nero. Una pausa di fuoco per permettere alle navi di passare, ai porti di operare, all’economia di respirare. È una partita anche commerciale e diplomatica, non solo militare.
Il nodo centrale, come sempre, è Vladimir Putin. Gli americani, almeno ufficialmente, parlano di segnali “costruttivi”. In realtà, l’analisi strategica va oltre l’ottimismo. Putin non tratta perché sconfitto, ma perché ha interesse a ridurre la pressione sul fronte interno, riorganizzare l’apparato bellico e alimentare le crepe nel fronte occidentale. Per il Cremlino, congelare il conflitto oggi significa congelare anche lo sforzo Nato, differenziare gli interlocutori (dialogo con Trump, distanza da Macron) e consolidare le conquiste territoriali.
Le controparti occidentali ne sono consapevoli. Per questo la cautela è massima. Qualsiasi apertura verrà subordinata a gesti concreti, come l’interruzione degli attacchi dronici, lo scambio di prigionieri o la restituzione (anche solo parziale) dei minori deportati, un dossier simbolicamente pesante, che coinvolge anche la Corte Penale Internazionale.
Volodymyr Zelensky gioca su un doppio tavolo. Da un lato, mostra disponibilità al dialogo, dall’altro rimarca l’autonomia ucraina e la necessità di “un ordine vero di cessazione degli attacchi”. Ma Kiev sa bene che, nel lungo periodo, l’asse occidentale è più fragile di quanto appaia. La campagna presidenziale americana, le elezioni europee, l’incertezza tedesca e il crescente stallo interno spingono gli alleati a cercare una “exit strategy onorevole”.
Il rischio? Che l’Ucraina venga spinta, se non forzata, ad accettare una tregua imperfetta che blocchi lo status quo, lasciando i territori occupati sotto controllo russo de facto, in cambio di garanzie vaghe e promesse future.
In questa fase il Mar Nero è il vero barometro del conflitto. Un cessate-il-fuoco navale, come anticipato da Witkoff, servirebbe a disinnescare l’escalation più immediata e a mettere alla prova l’affidabilità degli impegni russi. Ma rappresenterebbe anche un primo passo verso una segmentazione della guerra: una linea del fronte militare congelata, una zona marittima stabilizzata, e una trattativa diplomatica a geometria variabile.
Sullo sfondo la pressione militare occidentale non cala. Francia e Regno Unito, a capo della “coalizione dei volenterosi”, continuano a rafforzare il supporto ucraino. Più droni, più intelligence, più esercitazioni congiunte. È il classico schema da “diplomazia sotto pressione armata”.
L’impressione è che ci si trovi in una fase liminare, dove la guerra non è finita, ma sta cambiando forma. I colloqui di Riad sono più una misurazione dei nervi che un atto di resa. Tutti i giocatori mantengono le armi pronte, mentre si sondano le reali linee rosse. La sfida è negoziare senza demoralizzare Kiev, disinnescare la spirale bellica senza concedere una vittoria strategica a Mosca, e soprattutto evitare che il vuoto lasciato dalla stanchezza occidentale venga riempito da attori alternativi, come la Cina.
Sotto la sabbia dell’Arabia Saudita, si stanno scavando canali invisibili di dialogo. Se saranno solidi o effimeri, lo sapremo solo nei prossimi trenta giorni. Intanto, come in ogni guerra moderna, le trattative contano quanto i droni. E talvolta di più.