Ucraina. La Turchia sostiene l’adesione Nato

di Giuseppe Gagliano –

In occasione della sua visita di due giorni fa ad Ankara, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha incassato un sì che vale oro: la Turchia sostiene l’adesione dell’Ucraina alla NATO. Recep Tayyip Erdogan, con il suo pragmatismo da equilibrista, ha offerto a Kiev una sponda preziosa, parlando di “integrità territoriale” e “pace duratura”. Ma mentre il presidente ucraino stringeva accordi su droni e corvette, a Riyad Stati Uniti e Russia discutevano del futuro dell’Ucraina senza invitarla al tavolo. Un paradosso che racconta molto del caos geopolitico in cui si muove Kiev: corteggiata da alcuni, scavalcata da altri, sospesa tra guerra e ambizioni atlantiche.
Erdogan non è un novellino. Sa che sostenere l’Ucraina nella NATO significa irritare Mosca, con cui Ankara condivide interessi energetici e un delicato bilanciamento nel Mar Nero. Eppure, lo fa. Perché? La risposta sta nei numeri e negli interessi: 6 miliardi di dollari di scambi commerciali con Kiev, una seconda corvetta in costruzione per la Marina ucraina, “super motori” per il caccia Kaan turco. E poi c’è Baykar, l’azienda di droni legata alla famiglia Erdogan, che vede nell’Ucraina un partner strategico per espandere la propria influenza militare. Zelensky lo sa e rilancia: “La nostra cooperazione con la Turchia va oltre gli acquisti reciproci”.
Ma c’è di più. La Turchia, membro NATO dal 1952, usa il dossier ucraino per riaffermare il suo peso nell’Alleanza, dove spesso si sente marginalizzata. Sostenere Kiev è un modo per ricordare a Washington e Bruxelles che Ankara non è solo un avamposto scomodo, ma un attore ineludibile. Eppure, Erdogan non si sbilancia sulle garanzie di sicurezza: “Troppo presto”, dice. Un silenzio che tradisce la sua cautela: inimicarsi Putin, con cui ha negoziato grano e gas, non è nei suoi piani.
Zelensky insiste: la NATO è la chiave per la sicurezza ucraina. La Turchia è con lui, la maggior parte dell’Europa anche. Ma le crepe sono evidenti. Slovacchia e Ungheria, con i loro governi filorussi, dicono no. La Germania tentenna, timorosa di un’escalation. E gli Stati Uniti, con Pete Hegseth che il 12 febbraio ha bollato l’adesione di Kiev come “irrealistica”, sembrano voler scaricare il fardello sull’Europa. Trump, dal canto suo, definisce Zelensky un “dittatore” e preme per un accordo economico sulle risorse ucraine, non per un ombrello atlantico. Il contrasto è netto: mentre Ankara apre una porta, Washington la chiude.
Poi c’è Riyad. I colloqui tra Lavrov e Rubio, escludendo Ucraina ed Europa, hanno mandato Zelensky su tutte le furie: “L’ho saputo dai notiziari”. Un’umiliazione che sottolinea la sua impotenza: Kiev lotta per essere protagonista, ma finisce spesso pedina. La decisione di rinviare la visita in Arabia Saudita al 10 marzo è un gesto di protesta, ma anche un’ammissione: senza un posto al tavolo, le sue parole pesano poco.
Cosa resta di tutto questo? La Turchia offre a Zelensky un appoggio tattico, non strategico. Erdogan vuole i benefici – commerci, droni, influenza – senza pagarne il prezzo pieno, come un impegno diretto contro la Russia. L’Ucraina, dal canto suo, si aggrappa alla NATO come a un’ancora di salvezza, ma il sogno atlantico si scontra con una realtà dura: gli alleati sono divisi, e gli Stati Uniti pensano più al petrolio che alla sicurezza di Kiev. Mosca, nel frattempo, osserva e aspetta, sapendo che ogni frizione tra i suoi avversari è un punto a suo favore.
Il paradosso è che questa alleanza tra Ankara e Kiev, pur solida sulla carta, poggia su fondamenta fragili. La Turchia non romperà con Putin per Zelensky, e l’Ucraina non ha la forza per imporre la propria agenda. Intanto, a Riyad, Russia e Stati Uniti ridisegnano il futuro della regione, con o senza il consenso di chi la guerra la combatte. È la geopolitica del 2025: promesse altisonanti, ma decisioni prese altrove. E per Kiev, il rischio è sempre lo stesso: essere usata, più che salvata.