Ucraina: ma è Mosca o Washington a volere la guerra?

di Dario Rivolta *

Se qualcuno ancora nutre dei dubbi sul fatto che la politica estera degli stati europei sia succube dei soli interessi americani, la vicenda ucraina attuale dovrebbe definitivamente fugarli.
Cerchiamo di guardare i fatti come analisti, scevri da pregiudizi e partiamo dal rispondere a due domande.
La prima: tenendo conto della storia, degli accordi esistenti e del diritto internazionale, chi ha ragione tra i contendenti sul campo? La seconda: se è legittimo per ogni Stato perseguire il proprio interesse nazionale senza dimenticare la conseguenza delle proprie decisioni verso terzi, quali sono i reali interessi dell’Europa nei confronti della Russia e dell’Ucraina?
Pur ammettendo che torti o ragioni non stanno mai al cento per cento da una parte sola, se vogliamo rispondere alla prima domanda dobbiamo costatare che i maggiori responsabili della crisi in atto non sono i russi, bensì gli Stati Uniti e la pedissequa Unione Europea. E’ sufficiente ripercorrere la storia recente e non nasconderci che tutto comincia con l’espansione della Nato verso i confini della Russia e dal timore del Cremlino e dell’opinione pubblica di questo Paese di essere diventati oggetto di un’aggressione continua e senza giustificazione.
La propaganda dominante da noi in occidente ha continuato volerci far credere che l’allargamento della Nato sia sempre stato dovuto a una libera scelta del governo dei Paesi dell’ex Patto di Varsavia cui non si poteva dire di no. I sostenitori di questa tesi continuano a negare che alla caduta dell’Unione Sovietica ci fosse stata una promessa fatta a Mosca sul fatto che la Nato non sarebbe mai stata in alcun modo presente a est del fiume Oder, quello che segna il confine tra l’attuale Germania e la Polonia. In realtà tutti già sapevano che negare tale accordo era una netta menzogna ma oggi, grazie ad un articolo ben documentato del settimanale tedesco Der Spiegel, ne abbiamo la certezza. Uno studioso americano, il professor Joshua Shifrinson, professore di scienze politiche alla Boston University (USA), negli archivi nazionali britannici ha trovato un documento (a suo tempo classificato come “segreto”) che fa piena luce sulla questione. Le carte oggi accessibili per gli specialisti risalgono al 6 marzo 1991 e sono il verbale di un incontro tra direttori generali dei ministeri degli Esteri americani, britannici, francesi e tedeschi. I partecipanti a quella riunione discutono dell’impegno assunto con Mosca che escludeva, in ogni caso, che la Nato potesse allargarsi a est della Germania. Il riferimento era ai colloqui del “2+4” sull’unificazione tedesca. I due erano, naturalmente, Russia e Stati Uniti, e i quattro la Germania, la Francia, la Gran Bretagna e il Canada. Nel testo (che Der Spiegel presenta in fotocopia) si parla esplicitamente di un “general Agreement” che statuiva come “inaccettabile” l’adesione alla Nato dei Paesi dell’Europa orientale. Il diplomatico tedesco dice esplicitamente: “Avevamo chiarito durante i negoziati “2+4” che non avremmo esteso la Nato oltre l’Oder. Non potremo quindi offrire alla Polonia e agli altri l’adesione alla Nato”. Tuttavia, contrariamente agli impegni assunti, la Nato nel marzo 1999 ha ammesso Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca e l’ha fatto non casualmente poco prima di lanciare una guerra aerea contro la Serbia, senza l’avallo del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Nel 2004 la NATO è andata oltre incorporando anche le tre repubbliche baltiche ex sovietiche: Estonia, Lettonia e Lituania. In altre parole, la frontiera orientale della Nato arriva così a soli 135 chilometri da San Pietroburgo. Non paghi di quanto già ottenuto, nell’incontro Nato di Bucarest del 2008 gli Stati Uniti hanno annunciato la futura adesione all’Organizzazione Atlantica anche di Georgia e Ucraina. Quest’ultima operazione fu di fatto soltanto “sospesa” per l’opposizione dichiarata di Germania, Francia e Italia, le quali temevano, almeno in quel momento, di peggiorare ulteriormente i rapporti con la Russia.
Le ambizioni americane non si sono tuttavia fermate: diverse “rivoluzioni colorate” apparentemente spontanee ma, come tutti sanno, finanziate e organizzate in gran parte dagli Stati Uniti e dai loro agit-prop (vedi in particolare Polonia e Gran Bretagna) hanno toccato più di uno tra gli stati ex-alleati o parte dell’Unione Sovietica. Il “capolavoro” è arrivato con il colpo di stato contro il presidente ucraino Viktor Janukovich (occorre ricordare che, secondo gli osservatorii internazionali che seguirono le votazioni, la sua elezione nel 2010 era stata legittima e democratica). Come indubitabilmente dimostrato dall’intercettazione diffusa su internet della conversazione tra la sottosegretaria di stato americana Victoria Nuland e un alto politico baltico (disponibile su internet in originale), le manifestazioni di Maidan sono state fatte degenerare volutamente, anche con il concorso di gruppi ucraini paramilitari di estrema destra, in contrasto con un accordo per nuove elezioni concordato tra emissari europei e lo stesso Janukovich. Da allora gli americani che avevano continuato a finanziare tramite proprie organizzazioni (alcune statali e altre apparentemente no) una pseudo “società civile” ucraina, hanno cominciato a inondare l’Ucraina di armi e far partecipare il suo esercito a manovre militari congiunte con le truppe Nato. In questi giorni, accusando la Russia di una (fino a questo momento) del tutto improbabile volontà di invadere l’Ucraina, l’invio di armamenti e truppe ai confini della Russia è anche aumentato e perfino l’Italia ha mandato suoi militari in Romania e in Lettonia.
C’è da stupirsi se a Mosca qualcuno si sia preoccupato per la propria sicurezza nazionale?
Ad alta voce oggi si imputa a Putin di non rispettare i trattati sulla salvaguardia dei confini, prima in Crimea e ora nel Donbass, sulla non attuazione degli accordi di Minsk II e di voler soffocare la democrazia ucraina. Ebbene, dove stavano questi principi quando gli Stati Uniti, dopo una guerra contro la Serbia giustificata con l’accusa, rivelatasi falsa, di genocidio dei kosovari, hanno riconosciuto la nascita di un Kossovo indipendente in barba all’intangibilità dei confini della Repubblica Serba? E poi quale democrazia ucraina gli americani e gli europei vogliono difendere? Freedom House, un’organizzazione indipendente che non può certo essere accusata di essere filo-russa, ha dichiarato che il tasso di democrazia gestito dal governo di Kiev corrisponde a 60. Per fare un paragone, l’Ungheria di Orban è quotata 69 e la Polonia, che nega l’indipendenza della magistratura (e altro) a 82. Ma noi “occidentali” amiamo i Paesi democratici e pacifici… Che dire della Turchia, quotata (sempre da Freedom House) a 32 punti, che ha invaso la Siria, ha mandato in Libia i suoi mercenari e aiutato il “democraticissimo” (sic) Azerbaigian contro l’Armenia? Per non parlare del nostro caro alleato saudita. Finiamola con queste ipocrisie!
Se affrontiamo il tema posto dalla seconda domanda, e cioè quali siano per noi italiani ed europei i nostri interessi, la questione si fa più complicata, ma non meno precisa.
E’ evidente sia per ragioni economiche, sia politiche, sia di difesa, che il nostro rapporto con gli Stati Uniti sia imprescindibile. Anche volendolo, rompere quell’alleanza sarebbe difficile se non impossibile. Tuttavia una cosa è un’alleanza in cui gli interessi degli uni trovano complementarietà a quelli degli altri. Un’altra è la servitù imposta da qualcuno per il proprio singolo interesse ad altri che la devono subire senza eccepire. Dalla prima guerra mondiale a oggi l’obiettivo di Washington è sempre stato di esercitare un’egemonia via via crescente sul nostro continente. In particolare la strategia degli USA era di creare le condizioni per cui un avvicinamento tra la Germania (e il resto dell’Europa) e la Russia fosse impossibile. Durante la “Guerra fredda” la cosa ha fatto molto comodo anche a noi: abbiamo risparmiato sugli armamenti, cui pensavano gli americani, e utilizzato quei fondi per estendere il nostro Welfare. Lo scontro era soprattutto ideologico e in tutta l’Europa occidentale la presenza delle basi americane ha garantito di tenere a bada l’imperialismo sovietico. L’adesione alla Comunità Europea della Gran Bretagna ha contemporaneamente garantito gli americani che la nascita di una realtà europea unita anche politicamente (e quindi in grado di riacquistare una sua vera autonomia) restasse un sogno irrealizzabile. Caduto il muro, con una Russia che si apriva del tutto al mondo occidentale, le cose potevano cambiare, e oltre alla presenza della Gran Bretagna, palla al piede di ogni possibile maggiore integrazione europea, si è provveduto con la complicità della Germania (interessata alle sole ricadute economiche immediate) a far entrare nell’Unione tutti i Paesi dell’ex Patto di Varsavia. Costoro, come si sapeva, erano naturalmente restii, dopo essersi liberati dal giogo sovietico, a rinunciare di nuovo alla propria sovranità in favore di un qualunque altro organismo sovra-nazionale, e ciò che a loro serviva era soprattutto di ricevere tanti soldi a fondo perduto che aiutassero la loro ricostruzione economica e li avvicinasse al benessere degli altri europei.
Fin qui gli interessi americani. E i nostri? A noi serve per un qualche motivo avere la Russia come costante nemica? In un’intervista alla BBC data appena eletto nel 2000 Vladimir Putin dichiarava che “La Russia è parte della cultura europea. Ed io non riesco a immaginare il mio Paese isolato dall’Europa e da quello che noi spesso chiamiamo il mondo civilizzato”. L’allora segretario generale della Nato, George Robertson, ricorda il sincero desiderio espresso proprio da Putin di poter addirittura far parte dell’Organizzazione Atlantica. A Pratica di Mare, anche grazie a Berlusconi l’avvicinamento di Mosca, seppur non si trattasse di un’adesione, sembrava poter porre un primo gradino per una stretta collaborazione tra quelli che erano stati due blocchi contrapposti. Tuttavia, negli Stati Uniti qualcuno la pensava diversamente e partirono le “rivoluzioni colorate”. I toni americani tornarono a evocare quelli della Guerra fredda e pedissequamente molti politici europei ne fecero eco.
Ai nostri giorni la nostra sicurezza è più garantita se l’Europa ha un rapporto ostile o una collaborazione positiva con Mosca? La nostra economia guadagnerebbe o ci rimetterebbe se aiutasse la Russia a crescere e a diversificare le proprie fonti di reddito? Abbiamo più sintonia culturale e vicinanza con la storia e la cultura russa o, ad esempio, con quella turca?
La pochezza (e la stupidità) di alcuni politici europei (anche italiani) emerge dalle parole dello pseudo-ministro degli Esteri dell’Unione Europea Joseph Borrell: “Oggi abbiamo deciso all’unanimità di rispondere duramente alle azioni illegali della Russia contro l’Ucraina. Il pacchetto di sanzioni dell’Ue colpirà 351 membri della Duma di Stato russa che hanno votato per il riconoscimento dei cosiddetti LNR e DNR”, ha scritto su Twitter. Poi, molto “intelligentemente”, ha concluso dicendo con aria minacciosa nell’intento di spaventare i russi: “Non ci sarà più shopping a Milano, più feste a Saint-Tropez, più diamanti ad Anversa”. E, aggiungiamo noi: ”Finalmente pagheremo molto di più gas e petrolio, poiché la crisi farà salire i prezzi mondiali. E diventerà quasi conveniente perfino il benedetto gas di scisto americano che la magnanimità d’oltreoceano ci farà pervenire via mare, sempre che non trovi altre destinazioni più remunerative”.
Parallelamente il neo-eletto cancelliere tedesco Olaf Scholz, si è precipitato a dichiarare che il North Stream II non avrà il permesso di operare.
La realtà è che, come dimostrato in questi giorni, chi detta la linea e impone le decisioni da prendere non sta a Bruxelles o nelle capitali del continente, bensì sta sempre di là dell’Atlantico. Con la ridicola e masochistica reazione che l’Europa sta dimostrando in merito alla questione Ucraina si conferma che l’Unione è solamente un fantasma, un suddito senza speranza degli obiettivi a breve e a lungo termine degli Stati Uniti.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.