di Giuseppe Gagliano –
L’accordo raggiunto da Washington con Mosca e Kiev per garantire la sicurezza della navigazione nel Mar Nero e la sospensione degli attacchi alle infrastrutture energetiche appare, a prima vista, come un timido segnale di de-escalation. Ma basta guardare sotto la superficie per capire che questa non è una tregua, bensì una tregua armata. E che i veri tavoli negoziali non si trovano né a Kiev né a Mosca, ma a Washington, Bruxelles e – sempre più spesso – a Riyadh e Ankara.
Donald Trump, tornato a far pesare il proprio stile da “deal maker”, ha orchestrato due accordi separati, mettendo gli avversari uno contro l’altro e ponendosi come unico garante credibile di una pace provvisoria. Un atto che serve più agli USA che all’Ucraina, più alla geopolitica americana che alla stabilità della regione. Per Zelensky, infatti, la fiducia è minima: lo dice chiaramente quando avverte che “in caso di violazione” sarà lui a chiedere “sanzioni e armi” direttamente a Trump. Un rapporto fondato non sulla condivisione strategica, ma sulla dipendenza.
L’intervento di Sergei Lavrov è ancora più rivelatore. Il ministro russo mette nero su bianco che Mosca accetterà gli accordi solo se “Zelensky riceverà ordini da Washington”. È la rappresentazione plastica di quanto ormai il conflitto sia diventato una guerra per procura, e di come Mosca non consideri più l’Ucraina un interlocutore autonomo.
Ma il punto chiave è un altro: la guerra energetica e del grano nel Mar Nero ha assunto un valore globale, ben oltre l’Europa. La Turchia potrebbe essere coinvolta nel monitoraggio della tregua marittima, mentre Paesi del Medio Oriente (non specificati) potrebbero vigilare sull’accordo energetico. Segno che l’Occidente non è più l’unico attore legittimato nella gestione dei conflitti internazionali. È un mondo multipolare che avanza, e in cui gli USA cercano di restare egemoni usando la leva diplomatica come uno strumento di contenimento.
Il vero punto di attrito, però, è lo scambio implicito: da una parte tregua militare e alimentare, dall’altra allentamento delle sanzioni contro Mosca. La Russia chiede che Rosselkhozbank venga riammessa al sistema SWIFT, che le restrizioni sull’export di fertilizzanti vengano revocate e che le navi assicurate possano tornare a solcare liberamente il Mar Nero. Non è un accordo: è un baratto. Non un passo verso la pace, ma una redistribuzione dei vantaggi.
Zelensky, dal canto suo, smentisce che vi siano concessioni sulle sanzioni. Ma nella realtà, se la Russia ottenesse anche solo parziali aperture, il meccanismo delle sanzioni occidentali – già fiaccato dal dissenso interno in Europa – verrebbe messo in discussione. Con implicazioni potenzialmente devastanti per l’unità euro-atlantica.
Questa tregua nel Mar Nero è una pausa tattica, non una soluzione strategica. È un compromesso utile a Washington per tenere sotto controllo il fronte europeo in vista di possibili escalation in altre aree – dal Medio Oriente al Pacifico. Ma nel frattempo, nulla viene fatto per costruire le basi di una pace reale: né riconoscimento delle parti, né architettura di sicurezza condivisa, né prospettiva di neutralità negoziata per l’Ucraina.
La guerra continua, solo con un altro ritmo. E come spesso accade nelle relazioni internazionali, quando le armi tacciono, parlano gli interessi.