Ucraina. Nel gelo del confine polacco si aspetta il megafono “giusto”

Volontari Anas Sardegna nel campo profughi; "questa gente non cederà mai".

Agenzia Dire

HREBENNE (Polonia) – La guerra che da giorni sconvolge l’Ucraina ha il volto di una ragazza ventenne con il viso di una bambina. È fuggita con la madre da Charkiv e ora stringe a sé un cagnolino, lo sguardo assente di chi non ha capito cosa stia succedendo. Cerca di scaldarsi vicino alle fiamme che si sollevano da uno dei bidoni di latta disseminati nel centro di prima accoglienza di Hrebenne, villaggio a sud est della Polonia, a pochi chilometri dal confine ucraino. È tarda mattinata, ma le temperature sono già rigidissime. Nevica. Qui da giorni si riversano migliaia di profughi – quasi esclusivamente donne e bambini, gli unici autorizzati a lasciare il Paese, oltre agli uomini ultrasessantenni- un esodo impressionante e ordinato che parte principalmente da Leopoli, la più grande città dell’Ucraina occidentale. Il silenzio della colonna, surreale, è rotto solamente dagli ordini dei militari. A qualche decina di metri dal confine, associazioni di volontariato locali e internazionali hanno predisposto un campo di emergenza per offrire cibo, bevande calde e un po ‘di riposo ai profughi che giungono stremati, spesso dopo giorni di attesa in coda, aspettando il via libera per l’ingresso in Polonia. Un gazebo all’interno del centro accoglie le madri che attraversano il confine con neonati al seguito, un rifugio per allattare e cambiare i piccoli. La maggior parte delle persone che si aggirano per il campo hanno attraversato la frontiera solo con un trolley.
Arrivano qui, la mattina del 5 marzo, i volontari dell’associazione Anas partiti dalla Sardegna due giorni prima per consegnare il carico di farmaci raccolto nell’isola grazie alla generosità di tante famiglie, medici e titolari di farmacie. Ad Hrebenne si concretizza la prima parte della missione umanitaria partita da Cagliari (e a cui la Dire ha preso parte) con ambulanze e pulmini stipati di medicinali, oltre 2.300 chilometri di viaggio -praticamente no stop- per portare un piccolo contributo nella tragedia del popolo ucriano. La seconda parte, più importante e difficile, consiste nel salvare più gente possibile, caricando i profughi nei mezzi ormai vuoti, per poi portarli in Italia. Poco prima delle 13 un gruppo di volontari Anas riesce a oltrepassare la frontiera di Hrebenne dopo I controlli, e ad entrare in terra ucraina. Le operazioni durano pochi minuti, il tempo di percorrere qualche chilometro, raggiungere il contatto ucraino dell’associazione, scaricare I farmaci e caricarli sui camion diretti in un ospedale vicino. Il viaggio di ritorno sarà invece molto più faticoso: i volontari vengono infatti inglobati nell’immensa coda di sfollati che cerca di raggiungere la Polonia, un fiume di persone che si riversa verso la dogana. Ci metteranno più di tre ore per uscire. Nel frattempo un’altra fila, lunghissima, di pullman, auto e camion, fa il percorso inverso: sono tutti volontari che cercano di attraversare il confine verso l’Ucraina per portare medicinali e cibo. Qualche mezzo si ferma invece nel centro di accoglienza, carica i più fortunati, coloro che sono riusciti a mettersi in contatto con amici e familiari all’estero, e si allontana dal campo. I meno fortunati dovranno stare ancora a lungo sul confine polacco, nel frattempo vengono indirizzati verso rifugi di fortuna nelle palestre dei paesi vicini. Ogni tanto, tra le brandine da campeggio che affollano le palestre, risuona una voce da un megafono: annuncia l’arriva di un pulmino dalla Germania: ci sono posti disponibili per chi volesse trasferirsi in qualche città tedesca, ci sono lavoro e alloggio assicurati. In pochi minuti, centinaia di donne e ragazze, spesso con figli, devono decidere il loro futuro lontano dall’Ucraina.
Nel campo c’è un volontario sardo, Diego, un manager che da vent’anni lavora a Dublino per una multinazionale specializzata in ricerche cliniche. Con la compagna polacca, Kasia, da giorni dà una mano nel centro d’accoglienza. Hanno distribuito cibo e giocattoli ai bambini, con una macchina noleggiata hanno fatto la spola da un magazzino di un paese vicino, per portare al campo I beni di prima necessità. “Ogni giorno qui si riversano decine di migliaia di persone- mi spiega- la situazione è drammatica soprattutto per la Polonia, nessun Paese è in grado di accogliere così tanti profughi, l’Europa ora deve dare una mano”. Anche Diego, come tutti quelli che hanno messo piede nel campo profughi, è rimasto sconcertato dall’atmosfera che si respira: “Sono incredibili la dignità e determinazione di questo popolo, le persone che ho visto piangere in questo campo non erano le donne e i bimbi che fuggivano dalla guerra, ma gli stessi volontari che li soccorrevano. Non è retorica dire che questa gente non si arrenderà mai. Ho incontrato una donna ucraina di 55 anni che vive in Italia e ha accompagnato il figlio qui al confine perché voleva varcare la frontiera e combattere per il suo Paese. Me l’ha detto come se il ragazzo stesse andando a comprare le sigarette. In generale, nel campo, ci sono solo donne e bambini, si contano sulle dita di una mano gli uomini ultrasessantenni, che pure avrebbero potuto lasciare il Paese. Stanno rimanendo a combattere nonostante l’età avanzata, stesso discorso per gli adolescenti”. Quindi il racconto di un episodio che fa accapponare la pelle: “Mi è stato detto che qualche giorno fa delle ragazze sono state adescate qui vicino da una sorta di setta religiosa, per fortuna poi sono state liberate dalla Polizia. Non so se siano leggende metropolitane che girano per il campo, quel che è certo è che qui a Hrebenne è pieno di poliziotti in borghese che controllano per evitare che possano verificarsi rapimenti e stupri da falsi tassisti”.
Dopo sole poche ore passate nel centro di accoglienza, il freddo comincia a mordere, uno dei volontari polacchi che distribuiscono il cibo offre un piccolo panino e un bicchierone di caffè americano, bollente. Ci si scalda in falò di fortuna e qui riecco la ragazza con il cagnolino. Ancora lì, seduta e immobile, lo sguardo sul fuoco, in attesa.