Ucraina. Putin, ‘serve una conclusione logica’

di Giuseppe Gagliano –

Nel pieno di una guerra che sfida la tenuta dell’ordine mondiale, Vladimir Putin torna a parlare con parole pesanti come pietre. Nell’intervista alla televisione di Stato, anticipata ieri, il presidente russo non solo ribadisce la fiducia nella vittoria, ma fissa un obiettivo chiaro: una “conclusione logica” del conflitto iniziato nel 2022, ovvero un risultato politico e strategico compatibile con gli interessi vitali del Cremlino. Un messaggio, questo, diretto al fronte interno russo, ma anche agli attori esterni che ancora sperano in una negoziazione vantaggiosa.
Putin, nel tentativo di bilanciare fermezza e razionalità, ha anche precisato che non ritiene necessario il ricorso alle armi nucleari nel contesto ucraino. Eppure, l’ombra dell’atomica non si dissolve: la dottrina strategica russa aggiornata nel novembre scorso ha esteso le circostanze che giustificherebbero un attacco nucleare, abbassando di fatto la soglia d’impiego anche di fronte a minacce convenzionali. Parole misurate, dunque, ma con un sottotesto inequivocabile.
A confermare l’ambivalenza del momento arriva la dichiarazione di un cessate il fuoco simbolico – 72 ore dall’8 al 10 maggio – in concomitanza con le celebrazioni per la vittoria sul nazismo. Gesto distensivo? Secondo Kiev, no. Zelensky liquida l’annuncio come “messa in scena teatrale”, utile soltanto a generare un clima favorevole alla narrazione russa in vista della parata del 9 maggio. Al contrario, l’Ucraina propone un cessate il fuoco di 30 giorni. Ma Mosca ignora.
Il presidente ucraino, consapevole della portata simbolica e geopolitica del 9 maggio, si spinge oltre e lancia un monito: “Non possiamo garantire la sicurezza delle delegazioni straniere in Russia”. Parole pesanti, che Dmitry Medvedev – ex presidente e oggi vicepresidente del Consiglio di Sicurezza russo – ribatte con una minaccia trasparente: se qualcosa dovesse accadere il 9 maggio, “nessuno potrà garantire che Kiev arrivi al 10”.
Intanto il Cremlino si prepara ad accogliere capi di Stato amici, a cominciare da Xi Jinping e Lula. Presenze che, oltre al valore diplomatico, rappresentano la proiezione di un mondo che sfugge alla logica del blocco occidentale e che cerca – o finge di cercare – equilibri multipolari. Robert Fico, premier slovacco in bilico tra Est e Ovest, conferma la partecipazione alla parata e accusa Zelensky di “minacce” e “mancanza di rispetto”.
Nel frattempo, si moltiplicano i segnali di una guerra globalizzata. Kiev annuncia la cattura di due cittadini togolesi arruolati sotto falsa promessa di borse di studio in Russia: carne da cannone internazionale reclutata con cinismo da un sistema militare che, pur di rimpinguare le truppe, si affida a mercenari di 48 Paesi diversi. Un’inchiesta russa indipendente ha identificato almeno 1.500 combattenti stranieri, tra cui nepalesi, cinesi, cittadini dello Sri Lanka e di Paesi dell’Asia centrale. L’ennesima conferma che il fronte ucraino è solo il punto più visibile di un conflitto a geometria variabile che mescola diplomazia, disinformazione e colonialismo del ventunesimo secolo.
Mentre Mosca parla di “conclusione logica”, sul terreno aumentano invece le ambiguità, le provocazioni e le pressioni. La guerra resta incerta, il rischio di escalation resta vivo e il linguaggio delle armi, tradotto nei codici della deterrenza nucleare e del reclutamento senza scrupoli, continua a prevalere. Putin parla alla storia, ma la storia non ha ancora scelto da che parte stare.