di Giuseppe Gagliano –
C’è una verità che nessuno osa dire, eppure è sotto gli occhi di tutti: l’Unione Europea non ha, e probabilmente non avrà mai, una vera politica di difesa comune. Perché il cuore del problema non sta nella mancanza di strumenti o risorse, ma nell’assenza di volontà politica, nella frammentazione strutturale e nella dipendenza strategica dagli Stati Uniti, ben incardinata nella NATO.
Quando si tratta di distribuire soldi, l’Unione riesce a trovare compattezza. L’11 marzo 2025 la Commissione ha annunciato un piano titanico: 800 miliardi di euro per rafforzare le industrie militari dei Ventisette. Una pioggia di denaro pubblico che, in nome della sicurezza, potrebbe persino scavalcare il dogma sacro del 3% di deficit/PIL. Sembra quasi che il vincolo di bilancio valga solo per ospedali e scuole, non per carri armati e munizioni. Ursula von der Leyen lo chiama “rafforzamento strategico”, ma appare piuttosto come un gigantesco incentivo all’industria bellica, senza una reale visione europea.
Dal 2003 a oggi l’UE ha creato un mosaico di strutture dedicate alla difesa: l’Agenzia per gli armamenti, la Cooperazione strutturata permanente, il Fondo per la difesa, e infine persino un paradossale “Fondo per la pace” utilizzato per esportare armi verso l’Ucraina. Ma a mancare è sempre la stessa cosa: una bussola politica, una volontà condivisa, un interesse strategico comune. L’idea di una diplomazia europea unificata resta un’utopia soffocata dalle rivalità storiche e dalle differenze geopolitiche tra i Paesi membri.
A dispetto dei proclami, l’UE resta incardinata nella NATO. Lo ha ribadito il Consiglio Europeo nel marzo 2025: la difesa europea non è alternativa ma “complementare” a quella atlantica. Di fatto però l’Alleanza ha diritto di prelazione su tutte le crisi, mentre la Politica di sicurezza e difesa comune (PSDC) europea interviene solo a posteriori, in ruoli ausiliari o addestrativi. L’UE manda missioni in Mozambico o in Bosnia, ma resta subordinata a Washington per ogni scenario strategicamente rilevante.
Mentre Bruxelles parla di integrazione, gli Stati membri si organizzano per conto loro. I Paesi del Mediterraneo si coordinano con l’EuroMed, quelli dell’Est con l’Iniziativa dei Nove. Atene e Parigi stringono accordi bilaterali contro Ankara, mentre l’asse tra Meloni e Trump segnala una deriva sempre più sovranista. L’Europa, insomma, si muove in ordine sparso, senza un vero centro di gravità permanente. I sottogruppi regionali proliferano come reazione alla paralisi del centro.
Nel marzo 2025, l’UE ha solennemente affermato che “la pace dovrà rispettare l’integrità territoriale dell’Ucraina”. Un principio apparentemente nobile, ma che si trasforma in dogma ideologico quando viene brandito come arma contro ogni voce critica. Chi invoca la diplomazia o sottolinea le colpe ucraine viene zittito come “putiniano”. La russofobia è diventata il collante ideologico di una Unione che, in assenza di un’identità geopolitica, si rifugia in una morale bellicista e manichea.
L’eventuale ritiro progressivo degli Stati Uniti dallo scenario europeo dovrebbe rappresentare una finestra storica per rafforzare l’autonomia dell’Unione. Invece, ciò che si profila è un vuoto politico. Come scrive il politologo Federico Santopinto, senza una cultura geopolitica comune, l’UE è destinata a restare una macchina tecnocratica senza motore, incapace di produrre sovranità. Le sue decisioni – sempre più centralizzate, sempre meno democratiche – rischiano di alimentare una burocrazia autoritaria in grado di decidere guerra e pace al riparo dai Parlamenti.
Nel paradosso storico l’Europa che doveva nascere dalla pace rischia ora di dissolversi nella guerra. Quella che fu costruita per dire “mai più” alla tragedia del continente, oggi si scopre incapace di dire “mai più” alla guerra. L’Unione non unisce, la difesa non difende, e la sovranità resta un termine esiliato nei discorsi ufficiali. Di fronte al caos globale, l’UE barcolla tra atlantismo automatico e illusioni federaliste. Ma il conto, prima o poi, arriva.