Ue. Il bando al gas russo: diritto, dipendenze e doppie basi giuridiche

La crisi di legittimità dell’Unione.

di Riccardo Renzi

La proposta della Commissione europea di bandire completamente il gas russo entro il 2028 segna un passaggio epocale nella strategia energetica e geopolitica dell’Unione. Ma dietro gli obiettivi di autonomia e sicurezza si cela una controversia ben più profonda: quella sulla legittimità del metodo adottato. Forzando i margini interpretativi dei Trattati dell’UE, la Commissione tenta di aggirare il veto di Ungheria e Slovacchia utilizzando una “doppia base giuridica” che combina le disposizioni sulla politica commerciale e quelle sull’energia. Questa scelta, accolta favorevolmente dalla maggior parte degli Stati membri, solleva interrogativi sul rispetto del diritto europeo, sui limiti del potere comunitario e sul futuro del patto sociale europeo. Il presente articolo analizza il caso non solo dal punto di vista delle implicazioni energetiche e strategiche, ma soprattutto alla luce delle tensioni istituzionali e giuridiche che esso innesca, proponendo una riflessione più ampia sul significato politico del “come” si decidono le politiche comuni in Europa.
Nel maggio 2025, la Commissione europea ha annunciato un ambizioso piano per porre fine, entro il 1° gennaio 2028, a tutte le importazioni di gas naturale dalla Russia. Una mossa che rappresenta non solo l’atto finale di un lento processo di affrancamento energetico dall’Est, ma anche un precedente giuridico e istituzionale che rischia di riscrivere – o di deformare – le regole del gioco comunitario.
Dietro l’enfasi sulla “sovranità energetica” e sul “less is more” richiamato dal commissario Dan Jørgensen, si cela una profonda frattura tra Stati membri su metodo, forma e legittimità. Per imporre la misura, la Commissione ha deciso di non seguire la via delle sanzioni, che avrebbe richiesto l’unanimità nel Consiglio dell’Unione, ostacolata dal veto di Ungheria e Slovacchia. Ha invece scelto di incardinare la proposta su una cosiddetta “doppia base giuridica”, richiamando l’art. 207 TFUE (politica commerciale comune) e l’art. 194, par. 2 TFUE (politica energetica).
Una soluzione creativa, certo. Ma anche discutibile.
Il cuore del problema non è tanto la finalità della misura – l’eliminazione di un rapporto di dipendenza con un regime autoritario che ha dimostrato di saper usare l’energia come leva geopolitica – quanto il mezzo scelto per perseguirla.
L’articolo 207 TFUE riguarda la politica commerciale comune, con particolare riferimento a tariffe, accordi multilaterali, dazi e misure relative allo scambio di beni e servizi. Esso non contempla espressamente la possibilità di escludere un fornitore per ragioni esclusivamente politiche, e tanto meno nel caso di un fornitore già integrato nel mercato europeo da decenni.
L’articolo 194, invece, menziona sì la “sicurezza dell’approvvigionamento energetico”, ma chiarisce esplicitamente che ogni misura adottata in tale ambito non può ledere il diritto degli Stati membri di determinare “la struttura generale del proprio approvvigionamento energetico”. In altre parole, l’energia resta una materia condivisa, ma in cui la sovranità nazionale ha un peso preponderante.
Eppure, la Commissione ha scelto di forzare questa architettura istituzionale, tentando di trasformare una misura di politica energetica nazionale in una questione commerciale di interesse collettivo. La giustificazione: la Russia ha “militarizzato” l’energia e non è più un partner affidabile. Un’accusa fondata, ma sufficiente a giustificare una reinterpretazione radicale dei Trattati?
Il metodo adottato è passato sotto silenzio nella maggior parte dei media europei. Del resto, le due principali voci contrarie, cioè Viktor Orban per l’Ungheria e Robert Fico per la Slovacchia, sono leader controversi, spesso accusati di derive illiberali, connivenze filorusse e ostruzionismo sistemico nei consessi europei.
In questo contesto, la loro opposizione al bando sul gas russo è diventata quasi un’argomentazione a favore del piano stesso. “Se lo contestano Orbán e Fico, allora dev’essere giusto”, sembra il sottotesto. Ma in un’Unione che si fonda sul diritto e sul rispetto delle regole, la legittimità delle obiezioni non può dipendere dalla popolarità di chi le solleva.
La vera questione è: può la maggioranza usare strumenti giuridici ambigui per forzare la volontà della minoranza, senza modificare formalmente i Trattati? E che cosa resta della fiducia reciproca tra Stati membri, se le regole possono essere reinterpretate ad hoc?
Il caso del bando al gas russo non è isolato, ma rischia di diventare un paradigma. Oggi si forza la mano su una questione energetica, domani potrebbe toccare alla difesa comune. Le proposte per un “riarmo europeo” e per la creazione di un fondo comune per la spesa militare, già in fase di discussione, potrebbero seguire lo stesso iter: bypassare le competenze nazionali con l’argomento dell’emergenza, del pericolo esterno, della necessità.
Il rischio è che l’eccezione diventi regola e che si apra la strada a una forma di decisionismo comunitario fondato non sulla condivisione autentica, ma su forzature tecniche e interpretazioni flessibili dei Trattati. In nome dell’unità si finisce per minare la legittimità dell’intero edificio.
Sul piano tecnico, il piano di phase-out è ambizioso ma non privo di incognite. Le scadenze fissate – blocco dei nuovi contratti dal 2026, termine dei contratti esistenti entro il 2028 – prevedono margini stretti per diversificare le fonti e garantire la stabilità dei prezzi. Inoltre, l’affermazione secondo cui la base giuridica permetterebbe alle aziende di sottrarsi agli obblighi contrattuali con Gazprom invocando la forza maggiore è altamente discutibile. I tribunali internazionali potrebbero non accettare questa giustificazione, esponendo le società europee a contenziosi miliardari.
A tutto questo si aggiunge il problema dell’elusione tramite Paesi terzi e l’onere della prova che Bruxelles vuole spostare sugli importatori. Un cambio di paradigma che, se non supportato da solide infrastrutture normative e doganali, rischia di trasformarsi in un boomerang.
L’obiettivo dell’indipendenza energetica dalla Russia è condivisibile e anzi, forse tardivo. Ma perseguirlo sacrificando la coerenza giuridica e i principi fondanti dell’Unione rischia di indebolire proprio ciò che si vuole rafforzare: l’autonomia, la resilienza e l’affidabilità dell’Europa.
Il “caso gas russo” non è soltanto una partita energetica: è una battaglia istituzionale su come si esercita il potere in Europa. La coesione non può fondarsi sulla marginalizzazione dei dissenzienti, e il diritto non può diventare uno strumento di imposizione politica.
In tempi di crisi l’Europa è chiamata a scegliere non solo cosa vuole essere, ma come vuole diventarlo. Se oggi i “puzzoni” possono essere ignorati, domani chi sarà il prossimo? La risposta a questa domanda dirà molto di più sul futuro dell’Unione di quanto faccia qualsiasi piano energetico.