
di Yari Lepre Marrani –
La guerra come la politica sono arti, anzi la politica è l’arte più importante che esista perché dalla sua gestione, indirizzo e risultati dipende la vita dei popoli, e questi nostri anni dimostrano come la geopolitica si riveli ogni giorno importante quanto l’economia politica: un mondo di doppiogiochisti e “falsi messia” richiede un’analisi profonda delle vicende internazionali quanto doveva richiederla quello dell’Italia corrotta dei signori quattro-cinquecenteschi, da Cesare Borgia a Ludovico il Moro. Il pensiero critico geopolitico si deve acutizzare soprattutto nei tempi in cui l’ambiguità regge le sorti del mondo.
Quanto sta avvenendo o meglio, non avvenendo tra Stati Uniti e Federazione Russa nei primi cinque giorni di presidenza Trump facilita la dimostrazione che non è tutto oro ciò che luccica né nello sfarzo celebrativo ruotante attorno al nuovo inquilino della Casa Bianca (al suo secondo mandato), né nelle (apparenti) intenzioni del Cremlino di porre fine alla cruenta guerra ucraina. Osservando i principali attori della scena, e i loro ossequiosi comprimari, è possibile disvelare a mente fredda l’ipocrisia che sta dietro ai due comandanti, Putin e Trump, disuniti dalle proprie volontà di dominio ma ben uniti dal comune denominatore di espropriare l’Europa dal ruolo e rispetto che storicamente e per diritto consuetudinario le spettano. L’oggetto del contendere è il futuro dell’Ucraina, la fine di una guerra insensata e protrattasi più a lungo di qualsiasi immaginazione potesse concepire. Ma i presupposti di questa fine appaiono ictu oculi quanto mai ambigui. Tutto il mondo si aspetta che Donald J. Trump faccia cessare la guerra nell’est europeo.
Giovedì 23 gennaio Trump ha parlato in videoconferenza al World Economic Forum di Davos e l’attenzione di tutti i cortigiani europei non poteva non attendere le parole del Presidente americano sulla tragica vicenda ucraina. Pur non scendendo nei dettagli su come e quando agire, Trump ha vagamente accennato alla possibilità che “L’Ucraina è pronta a fare un accordo”. Ma, come anticipato, non tutto l’oro luccica ed è bello. Le reazioni del Cremlino alle parole pronunciate da Trump a Davos sono state prima caute poi duramente critiche, perché il presidente stratunitense sembra fare buon viso a cattiva sorte e la reazione di Dmitry Peskov, braccio destro di Putin, è stata più perentoria del previsto. Il portavoce di Putin ha affermato, tra tante parole, che “Trump, durante il suo primo mandato, fu il presidente americano che più di ogni altro fece ricorso alle sanzioni nei nostri confronti”, e Vladimir Soloviov, il più popolare tra i conduttori dei talk show serali russi ha rincarato la dose già somministrata da Perskov, affermando che “Non dobbiamo farci nessuna illusione: Trump è senza dubbio un nostro nemico di sistema”. Putin e i suoi accoliti hanno trovato intollerabili le parole di Trump inerenti il primario ruolo che gli USA hanno avuto nella vittoria della Seconda guerra mondiale, sostenendo che è stata la Russia ad aiutare gli Usa a vincere la più grande guerra mai combattuta sul suolo terrestre.
Parole che immediatamente hanno scatenato la ben nota scusa (paranoica e soggettiva) russa degli USA quali emissari di un disegno egemonico nei confronti della Russia e afflitti da complessi di superiorità, ricordando alla Casa Bianca che “la spina dorsale al Terzo Reich fu spezzata a Stalingrado, non in Normandia dove, invece, voi americani sbarcaste quando era già assolutamente chiaro chi avrebbe vinto”: parole di Aleksander Kots, corrispondente di guerra e autore russo. Frasi, affermazioni, parole che rimandano ad un nucleo storico i cui rigurgiti lasciano, evidentemente, i loro strascichi ancora oggi. Storicamente si può accettare il dato che a Stalingrado la Germania vide chiudersi il mito della propria invincibilità e iniziò il reflusso dei tedeschi. Hitler invase la Russia il 22 giugno 1941, il giorno prima esatto dell’anniversario dell’invasione napoleonica (23 giugno 1812). L’invasione nazista, come storicamente sanno anche le pietre di Stalingrado, si rivelò l’inizio della fine della Germania Nazista. Il passo si dimostrò altrettanto fatale per Hitler quanto lo era stato per il suo lontano predecessore ma la fine non fu altrettanto rapida. Napoleone fu costretto a ritirarsi dalla Russia prima della fine del 1812: i russi entrarono a Parigi nell’aprile del 1814, cioè il secondo anno dopo la sua invasione. Hitler fu cacciato dalla Russia dopo più di tre anni e i russi entrarono a Berlino solo nell’aprile del quarto anno dall’inizio dell’invasione. Gli uomini ripetono se stessi, nei secoli, ricalcano grandezze, miserie, errori, orrori, con una frequenza quasi matematica: quasi un dato scientifico. Al di là di ciò che avvenne sui campi militari, alla fine della Seconda Guerra Mondiale l’Europa era squartata a metà: i russi dominavano i paesi dell’est mentre l’ovest europeo iniziava la silenziosa discesa verso il destino di colonia americana. Un triste declino. Allora quel destino si dispiegò su un Europa in macerie, ridotta all’anno zero; oggi si dipana su un’Europa luccicante ma che, ancora, ha bisogno di ancorarsi all’elefante a stelle e strisce per le proprie esigenze, prima tra tutte: la sicurezza militare. Lo scrivente è tutto tranne che un russofilo o filoputiniano, ma non può non prendere atto che settantanove anni fa, sbarcando in Normandia e dilagando nell’Europa occidentale, forse gli statunitensi fecero un gran buon affare. Affare geopolitico e militare.
Al di là delle citazioni storiche, alla luce di quanto sta avvenendo nei primi giorni di presidenza Trump,delle dichiarazioni rilasciate dal Presidente americano a Davos agli europei sui prossimi passi per il cessate il fuoco in Ucraina, siamo di fronte ad un peso e due misure: quel peso è l’Ucraina e, con essa, il destino dell’Europa intera; le due misure è facile intuirle: quella americana e quella russa. Trump sostiene che abbassando i prezzi del petrolio, la guerra russo-ucraina cesserebbe subito ma Dmitry Peskov, voce di Putin, la pensa in modo diametralmente opposto e fortemente “combattivo” verso Trump e gli USA: “Questo conflitto avviene a causa della minaccia alla sicurezza nazionale della Federazione Russa, a causa della minaccia ai russi che vivono nei territori conosciuti, e a causa della riluttanza e del completo rifiuto da parte di americani ed europei di ascoltare le preoccupazioni russe”, ha affermato Peskov, citato dall’agenzia Interfax.
In mezzo sta l’Europa e il sangue degli ucraini, l’orgoglio annullato di un continente che non sa che strada prendere se non quella dell’ancorarsi al più forte. Perché non ci potranno essere negoziati senza il coinvolgimento del Vecchio continente, a partire dall’Ucraina stessa. Il destino dell’Europa si negozia con l’Europa non solo con chi la “rappresenta” oltreoceano. Ma l’Europa è debole, molto debole, e il destino dei deboli è quello di diventare servi di qualcuno. E’ un vaso di cristallo chiuso tra due incudini d’acciaio.