Unione Europea: a chi conviene tenerla divisa?

di Dario Rivolta –

Un valente collega che ha letto il mio ultimo articolo sul perché, e come, gli USA vogliono un’Europa frammentata mi segnala che sarebbe ugualmente interessante domandarsi se non è l’Europa stessa a voler rimanere divisa. L’osservazione è tutt’altro che peregrina e merita qualche considerazione.
Tutti sanno che una vera Unione politica e finanziaria del Vecchio Continente farebbe dell’Unione una protagonista assoluta delle dinamiche mondiali che da sola rappresenterebbe 600 milioni di persone ad alto reddito, un tessuto industriale molto sviluppato, un PIL che si classifica tra i massimi del mondo, un prestigio e una storia politica da grande potenza. È comprensibile che Stati Uniti, ma anche Russia e Cina, preferiscano rapporti bilaterali con i singoli Stati membri piuttosto che doversi confrontare con una sola voce unitaria. Nei rapporti a due sanno di avere un maggiore potere contrattuale, mentre il dialogo con una Europa veramente unita li costringerebbe a trattare da pari a pari. Diventa per loro ovvio, quindi, fare qualunque cosa rientri nelle loro possibilità per sabotare una possibile integrazione europea, anche fomentando tutte le conflittualità già esistenti al suo interno.
Ciò che sembra invece meno scontato è il perché i Paesi europei continuino a giocare ciascuno per conto proprio, nonostante l’evidenza che una compattezza continentale finirebbe con portare vantaggio a ciascuno. A parole, molti leader sostengono la necessità di azioni più unitarie ma nei fatti smentiscono se stessi. In tutte le dichiarazioni dei fondatori del Mercato Comune si attestava che la liberalizzazione dei commerci dovesse costituire solo un primo passo verso una vera e propria unità e da allora i richiami ad europeisti come Spinelli e al suo sogno di una nuova Europa hanno continuato a essere ripetuti. Perfino la moneta unica, seppur sposata soltanto da una parte dei membri, è stata promossa come un ulteriore gradino verso la vera unità. Ciononostante le opinioni pubbliche hanno sposato solo a fasi alterne l’idea di una maggiore integrazione e lo hanno fatto in misura diversa tra Paese e Paese. Gli italiani sono sembrati essere sempre stati tra i più europeisti e, tuttavia anche da noi lo scetticismo ha cominciato a farsi strada.
È pur vero che una delle promesse implicite nel disegno dell’unificazione era il benessere sempre più diffuso e la crisi economica cominciata nel 2008 ha stroncato quell’attesa trasformandola in una delusione. Vi si è aggiunta la crisi migratoria che ha mostrato la distanza tra le ipocrite dichiarazioni ufficiali fatte a Bruxelles a favore di un’accoglienza diffusa e le posizioni realmente assunte dai vari governi per assecondare i sentimenti di rigetto, condivisi dalla maggioranza dei cittadini di tutti gli Stati europei. Anche l’approccio estremamente burocratico dei funzionari della Commissione, i costi del suo mantenimento, le miriadi di disposizioni lontane dalla realtà emanate dalla Commissione stessa o dal Parlamento Europeo hanno contribuito alla disaffezione dei cittadini verso le Istituzioni comunitarie. Infine (ma non è tutto), l’incapacità delle ricette inappellabilmente liberiste a fronteggiare la crisi economica ha fatto il resto. Tutto ciò ha finito con l’oscurare la consapevolezza dei benefici che almeno il mercato comune e l’euro hanno portato finora: un’inflazione sotto controllo, la riduzione dei tassi d’interesse, la diminuzione dei prezzi di tutto ciò che viene importato da fuori continente ecc.
La diffusione dei consensi dei “sovranisti” trova comunque una sua giustificazione nella pochezza della classe politica che sempre più e ovunque non riesce a mettere in pratica quel salto di qualità che pure era stato ipotizzato: il passaggio ad un ordinamento federale, o almeno confederale.
L’esempio più eclatante dello iato tra parole e fatti lo si riscontra in Macron, l’attuale presidente francese. Costui aveva iniziato il suo mandato con forti dichiarazioni europeiste e, durante un discorso pronunciato alla prestigiosa Università della Sorbona, aveva fatto sperare che ci fosse finalmente chi poteva pilotare una nuova fase storica che superasse la stagnazione del processo di unificazione. Ahimè! Ogni atto succeduto a quelle parole le ha contraddette inequivocabilmente. Dai migranti respinti ai confini con l’Italia alla questione dei Cantieri navali sull’Atlantico (fino a che stavano in mani coreane sembrava tutto andasse bene e quando Fincantieri si è offerta di salvarli dal fallimento acquistandone le quote di maggioranza Parigi ha preteso di mantenerne il controllo direttamente). L’ultimo caso di tipico sciovinismo francese lo si è visto recentemente, nella questione FCA- Renault, con la ex FIAT che ha preferito ritirare la propria offerta piuttosto di cedere a un presuntuoso ricatto “sovranista” del Governo francese.
Anche la cancelliera tedesca Merkel non è – mai – stata da meno del nuovo collega francese. Basta ricordare la totale mancanza di solidarietà mostrata verso i greci scoperti di aver truccato i loro conti pubblici e incamminati verso il fallimento. Se l’Europa fosse intervenuta subito coprendo con i propri mezzi finanziari le falle di quel bilancio, il costo per tutti sarebbe stato irrisorio. La “Mutte” però non ha avuto la statura dei grandi leader, quelli che guardano a lungo termine e, assecondando calcoli a breve (e soprattutto la propria cieca opinione pubblica), ha impedito ogni intervento fino a che non fossero stati garantiti i crediti delle banche tedesche. Il risultato fu che il buco finanziario greco crebbe a dismisura, i greci vivono ancora oggi in miseria e disoccupazioni galoppanti e ogni Paese europeo ha dovuto sborsare grandi cifre per finanziare il rientro, tra l’altro ancora in corso. La Germania e la Francia non impoverirono le proprie banche ma si dimostrò a tutti l’assenza di una solidarietà europea. Sulla questione migranti anche a Berlino si sono comportati ipocritamente. Immaginando di potersi prendere i migranti “migliori” e lasciare la “feccia” per gli altri, la Merkel lanciò l’idea di accogliere tutti i siriani in fuga dalla guerra. Mal gliene incolse: aspettandosi qualche centinaia di migliaia di persone, cominciarono ad incamminarsi verso la Germania in milioni e la reazione del tedesco qualunque convinse la Cancelliera di aver fatto un errore. Non poteva però ammettere formalmente di aver sbagliato e chi la salvò furono gli ungheresi. Costoro, invasi da chi voleva raggiungere l’Austria e la Germania e passava per il loro Paese, decisero di bloccare i confini d’ingresso con un’alta rete e il controllo di polizia. L’ipocrisia tedesca arrivò al punto che la Merkel si permise perfino di criticare “l’inumanità” di Budapest, ma nel frattempo fece un accordo con Erdogan affinché i profughi fossero trattenuti in Turchia in cambio di ben sei miliardi di euro. Pagati però non solo dai tedeschi ma da tutti gli Stati dell’Unione.
Macron parla spesso della necessità di Europa Unita ma il suo vero obiettivo è solo trovare il modo di salvaguardare la “potenza” francese contro il super potere di Berlino. Esattamente come credette di fare (illudendosi) Mitterand quando obbligò i tedeschi ad accettare l’Euro in cambio del consenso all’unificazione con la Germania Est. La Merkel, ben lontana dalla lungimiranza di un Helmut Schmidt e perfino di un Kohl, ha sempre puntato a obiettivi di breve termine, facili e demagogici, sufficientemente utili a garantirgli consenso e quindi potere personale. Anche lei parla, ogni tanto, dell’utilità di un’Europa più coesa (soprattutto dopo aver subito gli attacchi commerciali americani), ma ha approfittato della relativa debolezza dell’euro rispetto al passato Marco per aumentare le esportazioni. Contemporaneamente e contro le intese di Maastricht, si è rifiutata di usare il forte avanzo di bilancio per aumentare la spesa interna e trasformare così la Germania nella locomotiva economica capace di trascinare anche le economie dei Paesi europei più deboli. La ragione: i tedeschi non vogliono “farsi carico dei problemi e dei debiti altrui”, anche se l’indebolirsi degli altri mercati europei finirà col penalizzare pure le loro esportazioni. La Cancelliera Merkel è il perfetto esempio di cosa voglia dire “guardare a breve” e preoccuparsi della situazione che si porrà a medio e lungo termine.
Parlare poi del cosiddetto Accordo di Visegrad diventa pressoché pleonastico. Questi Paesi di ultimo accesso non hanno mai creduto veramente alla necessità di un’integrazione europea. A loro interessava soltanto avere accesso ai fondi per lo sviluppo che Bruxelles avrebbe elargito. La Polonia e i baltici in particolare puntano a stare a metà strada tra Bruxelles e Washington e cercano di ottenere il massimo dei benefici da entrambi. Sono loro infatti, assieme ai neo governi “sovranisti”, i cavalli su cui puntano USA, Russia e Cina e per impedire qualunque progresso verso l’unificazione. Seminare instabilità, alimentare i dissidi fomentando il malcontento popolare, spalleggiare i politici antieuropeisti sono alcuni degli strumenti cui ricorrono. Sembra che ci riescano, e non debbono fare nemmeno tanti sforzi. Nessun attuale leader tedesco, francese, italiano o spagnolo ha nemmeno la capacità di pensare ciò che disse De Gasperi: “Un politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista mira alla prossima generazione”. Ebbene, in Europa abbiamo tanti politici ma nessuno statista.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.