Usa. Pressioni sulla Corte Penale Internazionale per non indagare Netanyahu

C.Alessandro Mauceri

Nei giorni scorsi il procuratore della Corte Penale Internazionale (CPI), Karim Khan, ha denunciato pubblicamente di aver ricevuto pressioni da parte degli Stati Uniti d’America in merito alla decisione della CPI di incriminare per genocidio il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Le accuse, rilasciate in occasione di un’intervista a un giornale giapponese, non riguardano solo il caso specifico ma la preoccupazione sul ruolo della Corte Penale Internazionale nel mondo. Il procuratore della CPI ha espresso nell’intervista al Yomiuri preoccupazione per le pressioni degli Stati Uniti e cercato la cooperazione del Giappone.
La CPI ha messo sotto accusa in maggio Netanyahu per crimini di guerra compiuti a Gaza e contro i palestinesi, mentre la Corte Internazionale di Giustizia, che ha pure sede a L’Aja, ha aperto un’inchiesta in gennaio per gli stessi motivi nei confronti di Israele, a seguito del ricorso del Sud Africa.
Oltre che per Netanyahu, il procuratore capo del Tribunale Penale Internazionale ha chiesto l’emissione di mandati di cattura per il ministro della Difesa Yoav Gallant e per i leader di Hamas Yahya Sinwar, Mohammed Deif, Ismail Haniyeh (ucciso poi dagli israeliani a Teheran) e Diab Ibrahim al-Masri, condannando in tal modo lo Stato sionista ad un isolazionismo ancora più accentuato sul piano internazionale.
Il conflitto israelo-palestinese, che si protrae da oltre 75 anni, ha subito una drammatica impennata dopo l’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2024. Gli equilibri mondiali, già resi instabili dal conflitto in Ucraina, sono stati ulteriormente alterati ed è diventato reale il rischio di un ampliamento della guerra in corso e di un conflitto regionale.
Secondo Khan atteggiamenti come quelli condotti dal governo Biden potrebbero “erodere” il ruolo del tribunale: “Allora non si può avere un sistema basato su regole”.
Le parole del procuratore della CPI sottolineano due aspetti entrambi importanti. Da un lato l’impotenza delle istituzioni sovranazionali, dall’altro il “doppiopesismo” di grandi potenze che pretendono di ricevere trattamenti differenti dagli organismi internazionali.
Accuse pesanti rivolte in modo particolare agli Stati Uniti d’America che continuano a sostenere Israele, pur non essendo membri della CPI. Addirittura a giugno scorso la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti aveva approvato a maggioranza un disegno di legge per imporre sanzioni pensanti nei confronti dei funzionari della CPI (e perfino dei loro familiari). Disegno di legge che potrebbe diventare legge se approvato anche dal Senato e firmato dal presidente. Pressioni e minacce che secondo Khan potrebbero “per smantellare o erodere le istituzioni giuridiche che sono state costruite dopo la Seconda Guerra Mondiale”. Il pericolo maggiore deriva dal fatto che questo modo di fare pare estendersi anche ad altri organismi internazionali (si pensi a quanto è avvenuto qualche anno fa nei confrotni dell’OMS sempre per mano degli USA).
Una forma di destabilizzazione del sistema che va avanti da anni e che sta ottenendo risalti preoccupanti. “Qualcuno crede che finirà con la Corte Penale Internazionale?”, ha detto il procuratore della CPI. A dimostrarlo il fatto che recentemente il presidente russo Vladimir Putin, per il quale la CPI ha emesso un mandato d’arresto, ha lasciato il proprio paese per recarsi in Mongolia, paese membro della CPI. In teoria la Mongolia in quanto Stato membro della CPI era obbligata a prenderlo in custodia. Ma le autorità mongole si sono guardate bene dal farlo. “È meglio per il paese e per il mondo, quasi invariabilmente, avere il coraggio di stare in piedi per principio piuttosto che per convenienza”, aveva dichiarato Khan, invitando la Mongolia a rispettare gli impegni sottoscritti.
Lo stesso per il premier israeliano, che nei mesi scorsi è stato accolto con grandi onori dal Congresso degli USA. “La nostra responsabilità è quella di utilizzare le nostre risorse in modo efficace per indagare sulle prove incriminanti e scagionare allo stesso modo fino a quando non riterremo che le principali accuse penali siano state indagate a fondo”, ha concluso Khan.
La decisione di Khan di tenere questo discorso in Giappone non è casuale. Il Giappone è un paese membro della CP, i paesi che hanno aderito allo Statuto di Roma sono solo 124. E tra questi non ci sono né la Russia, né Israele e nemmeno gli Stati Uniti d’America, che però non hanno perso l’occasione per cercare “democraticamente” di esercitare pressioni sulla corte Penale Internazionale.
Anche l’Ucraina, che pure aveva sottoscritto lo Statuto di Roma il 20 gennaio 2000, ha ultimato le procedure di ratifica parlamentare solo il 21 agosto 2024, ma la legge di relativa contiene una dichiarazione, ai sensi dell’art. 124 dello Statuto (peraltro in via di abrogazione), che prevede che “per sette anni dall’effettiva entrata in vigore della ratifica l’Ucraina “non riconoscerà la giurisdizione della Corte Penale Internazionale” sui crimini di guerra “quando, probabilmente, commessi da suoi cittadini”. Un comportamento simile a quello degli USA per Israele: riconoscere la CPI (e gli altri organismi internazionali) quando conviene. Per il resto ogni scusa è buona per attaccarli. O per cercare di esercitare pressioni dall’esterno.