Verso la pace tra i curdi e Ankara: il PKK abbandona le armi

di Giuseppe Gagliano

Dopo oltre quarant’anni di un conflitto che ha insanguinato la Turchia, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) ha annunciato la fine della lotta armata, un passo che potrebbe segnare l’inizio di una nuova era per la questione curda. L’organizzazione, guidata dal suo leader storico Abdullah Ocalan, detenuto da oltre un quarto di secolo, ha dichiarato di aver “completato la sua missione storica”, aprendo la strada a una soluzione politica con il governo di Recep Tayyip Erdogan. Questo annuncio, atteso da tempo, arriva due mesi dopo che Ocalan ha invocato un dialogo con Ankara, lasciando intravedere la possibilità di un accordo che non solo chiuda una ferita interna alla Turchia, ma ridisegni gli equilibri di un’intera regione.
La lotta del PKK contro lo Stato turco affonda le radici negli anni ’80 quando il movimento, ispirato a un’ideologia che intreccia marxismo-leninismo e nazionalismo curdo, ha preso le armi per rivendicare l’indipendenza delle regioni a maggioranza curda nel sud-est della Turchia. La risposta di Ankara è stata feroce: repressione militare, arresti di massa e una guerra che tra scontri, attentati e rappresaglie, ha causato circa 40mila morti. Negli anni ’90 il PKK ha moderato le sue ambizioni, abbandonando la richiesta di secessione per puntare a uno statuto di autonomia regionale, ma il conflitto è proseguito a fasi alterne, con momenti di tregua e improvvise escalation.
I tentativi di pace non sono mancati. Nel 2011, quando Erdogan era primo ministro, furono avviati colloqui con il PKK, ma le speranze si infransero nel 2015, quando il processo di pace collassò in un vortice di violenze e polarizzazione politica. Da allora la questione curda è rimasta una spina nel fianco per la Turchia, con ripercussioni che vanno ben oltre i suoi confini. Ora, però, il vento sembra cambiare. A ottobre, il vicepresidente turco Devlet Bahceli, leader del Partito del Movimento Nazionalista (MHP), ha sorpreso molti lanciando un appello pubblico a Ocalan per una nuova fase di pacificazione, un gesto che ha dato il via a una serie di mosse politiche culminate nell’annuncio del PKK.
Perché, dopo decenni di ostilità, si apre ora questa finestra di dialogo? Le motivazioni sono molteplici e intrecciano dinamiche interne, regionali e persino globali. In primo luogo la Turchia di Erdogan sta ridefinendo il suo ruolo in un Medio Oriente in rapida trasformazione. La recente intesa in Siria tra le Forze Democratiche Siriane (SDF), a guida curda, e il governo di Ahmad al-Sharaa rappresenta un tassello cruciale. Come nota la ricercatrice Ozge Genc su al-Jazeera, il messaggio di Ocalan non è un episodio isolato, ma si inserisce in un contesto di alleanze mutevoli. Per Ankara stabilizzare la questione curda su entrambi i lati del confine turco-siriano è essenziale per consolidare la sua influenza regionale, specialmente in Siria, dove la Turchia ambisce a essere un attore dominante.
In secondo luogo c’è il timore di interferenze esterne. Negli ultimi decenni, potenze come Israele hanno spesso sostenuto i curdi per destabilizzare i rivali regionali di Ankara. I recenti raid israeliani su Damasco e i tentativi di Tel Aviv di sfruttare la comunità drusa per ostacolare la riunificazione siriana sono un segnale chiaro: la Turchia deve blindare il fronte curdo per evitare che diventi un’arma nelle mani di attori esterni. Un PKK pacificato e integrato in un accordo politico ridurrebbe questo rischio, permettendo ad Ankara di concentrarsi sulla sua proiezione geopolitica.
Infine, ci sono le ambizioni politiche interne di Erdogan. Dopo il fallimento dei negoziati del 2015 e la svolta nazionalista del suo Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), molti elettori curdi si sono allontanati dal governo, rafforzando partiti di opposizione come l’HDP. Un accordo con il PKK potrebbe permettere a Erdogan di riconquistare una parte di questo elettorato, cruciale in vista di battaglie politiche future. Un possibile referendum per modificare la Costituzione, che gli consenta di prolungare il suo potere, o le elezioni presidenziali del 2028 potrebbero essere il banco di prova. Concedere maggiore autonomia ai curdi, magari codificata in un accordo formale, potrebbe essere la moneta di scambio per assicurarsi il sostegno di una comunità che rappresenta circa il 15-20% della popolazione turca.
L’annuncio del PKK non è solo una questione turca: le sue implicazioni si estendono a tutto il Medio Oriente. La fine della lotta armata potrebbe favorire una stabilizzazione della Siria, dove i curdi delle SDF giocano un ruolo chiave. Un’intesa tra Ankara e il PKK ridurrebbe le tensioni lungo il confine, permettendo una cooperazione più fluida tra Turchia e le forze curde siriane, magari sotto l’egida di Damasco. Questo a sua volta potrebbe indebolire le manovre di potenze esterne, come Israele o gli Stati Uniti, che in passato hanno usato la carta curda per influenzare la regione.
Tuttavia la strada verso la pace è tutt’altro che scontata. Quattro decenni di conflitto hanno lasciato cicatrici profonde: diffidenza reciproca, traumi collettivi e una società polarizzata. Anche se Erdogan e Ocalan trovassero un’intesa, la sua implementazione richiederebbe tempo e volontà politica. Le comunità curde, da un lato, chiedono garanzie concrete, come il riconoscimento dei loro diritti culturali e linguistici e un’autonomia amministrativa reale. Dall’altro i settori più nazionalisti della società turca, rappresentati da forze come l’MHP, potrebbero opporsi a qualsiasi concessione percepita come una resa.
In un contesto così complesso il ruolo del giornalismo indipendente è più cruciale che mai. Raccontare la questione curda non significa solo riportare fatti, ma scavare nelle motivazioni, contestualizzare gli eventi e dare voce a prospettive spesso ignorate. È un lavoro che richiede tempo, risorse e coraggio, soprattutto in un’epoca in cui la polarizzazione e la disinformazione rendono difficile distinguere la verità dalla propaganda. Sostenere un’informazione libera e approfondita è un atto di responsabilità verso una società che vuole comprendere, non solo reagire.
La fine della lotta armata del PKK non chiude la questione curda, ma apre un capitolo nuovo, pieno di opportunità e insidie. Se Erdogan e Ocalan riusciranno a trasformare questa svolta in un accordo duraturo, il Medio Oriente potrebbe trovarsi di fronte a un cambiamento epocale. Ma, come sempre, la storia non si scrive in un giorno, e il cammino verso la pace sarà lungo e tortuoso.