Brics. E se vi fosse lo sgambetto argentino?

di Francesco Giappichini

E se la svolta verso un nuovo mondo e in direzione del multilateralismo – sancita in agosto a Johannesburg, al XV vertice Brics – si inceppasse solo tra poche settimane? Si tratterebbe semplicemente di una battuta d’arresto, o magari di un danno d’immagine? «No nos alinearemos a comunistas», ossia «Non ci allineeremo con i comunisti». E non «promuoverò accordi con i comunisti perché non rispettano i parametri fondamentali del libero scambio, della libertà e della democrazia, è una questione geopolitica». Lo ha affermato il candidato populista (e anticlericale) Javier Milei, che è in testa ai sondaggi per le presidenziali del 22 ottobre in Argentina. Il controverso economista si riferisce all’entrata del suo Paese, programmata per il primo gennaio ’24, nei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica): il blocco dei Paesi emergenti (o già emersi), che punta a un ordine mondiale multipolare, e che i media già definiscono «Brics+», per ricomprendervi anche l’ingresso di sei futuri membri.
Ovvero, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia saudita, Emirati arabi uniti, e appunto l’Argentina. Andiamo però con ordine. Nelle ultime settimane, i think tank del mondo intero hanno analizzato non solo l’allargamento dei Brics, ma anche la sfida del «sud globale», il Global South, al mondo industrializzato. Tuttavia i toni entusiastici non hanno fatto i conti con l’alternanza politica negli Stati membri del blocco, (almeno in quei pochi non governati da regimi autoritari). Sì, perché entrambe le opposizioni di destra che contenderanno ai peronisti la Casa Rosada, hanno dichiarato la loro contrarietà all’adesione. E se il candidato libertario dell’alleanza La libertad avanza (Lla) è stato tranchant – ed ha auspicato un allineamento con Stati Uniti, Israele e Gruppo dei sette (G7) – anche la liberale Patricia Bullrich (Juntos por el cambio – Jxc o Juntos) è stata piuttosto netta: «L’Argentina, sotto il nostro governo, non entrerà nei Brics».
In sostanza, la battaglia per l’ingresso di Buenos Aires nei Brics, è stata promossa e sostenuta solo dai peronisti della coalizione Unión por la patria (Up): un cartello elettorale in ritardo nei sondaggi, nonostante possa contare sulla leadership dell’attuale ministro dell’Economia Sergio Massa, e sulle sue truppe clientelari. Anche il candidato di centro-sinistra ha cercato, da parte sua, di essere efficace: «I due maggiori acquirenti di prodotti argentini sono Brasile e Cina. Cosa significa lasciare i Brics per i lavoratori di un impianto di confezionamento della carne che vende tonnellate di carne alla Cina? Si dicono frasi che possono essere giudicate simpatiche, per avere qualche titolo sui giornali, ma voglio avvertire che abbiamo uno swap della nostra Banca centrale con la Cina» per milioni di dollari, e che se «lasciamo i Brics, esso si disattiva automaticamente. Ciò ci danneggerebbe molto», per quanto riguarda le riserve monetarie.
Secondo la maggioranza dei politologi argentini, il tema dell’adesione al raggruppamento non avrà un’influenza decisiva sulle elezioni. Tuttavia potrebbe creare un’ulteriore polarizzazione tra i fan della dollarizzazione voluta da Milei, e i tifosi di quella de-dollarizzazione su scala mondiale, propugnata invece dall’organizzazione intergovernativa. Oppure tra gli aficionados dell’occidente, il Global North, e chi al contrario auspica sia una sfida allo strapotere di Stati Uniti, Israele e G7, sia la possibilità di sfruttare appieno i vantaggi offerti dall’appartenenza al gruppo.