Cosa vuol dire nonviolenza?

di Maddalena Pezzotti

La nonviolenza è una filosofia evoluta in strategia politica. Il suo ideatore appartiene alla memoria collettiva: il Mahatma Gandhi. L’utilizzo della violenza nella battaglia contro il colonialismo, verso il traguardo di una società pacifica, appariva a Gandhi insensato. La pratica della disobbedienza civile, alle leggi dell’allora Impero Britannico, seguiva invece l’assioma per cui giusti mezzi portano a giusti fini.
Oggi alla resistenza nonviolenta si richiamano correnti di opposizione alla guerra e gruppi che mirano, più in generale, alla trasformazione sociale. Il principio fondamentale è che, se il potere dipende dal beneplacito e l’adesione della popolazione, la nonviolenza punta a minare l’autorità mediante il rifiuto del consenso e della collaborazione, e la realizzazione di un percorso alternativo, la cui meta non è l’annientamento fisico del nemico, ma la decostruzione delle cause del conflitto.
Nonviolenza è la traduzione letterale del termine sanscrito ahimṣā (“a” privativa e himsa “danno, violenza”), ovvero “assenza del desiderio di nuocere, uccidere”, al fine di conservare il perfetto equilibrio del mondo nella sua interezza. Trova le sue migliori espressioni nel buddhismo e nel giainismo, in ambito indiano, e nel taoismo cinese. La grande innovazione gandhiana consiste nell’aver tramutato un precetto etico-religioso in strumento dell’agire politico.
L’espressione “resistenza passiva”, infatti, non veniva condivisa da Gandhi, che preferiva parlare di una “resistenza attiva” contro il male. Distingueva inoltre tra la “nonviolenza del debole”, o chi non ricorre alle armi per viltà, dalla “nonviolenza del forte”, o chi potrebbe usarle, ma preferisce l’influenza della verità. Solo quest’ultima era, per Gandhi, vera nonviolenza. Il termine, nell’accezione gandhiana, migrò nella militanza civile di Martin Luther King.
Gandhi si rifece alla dottrina della “non resistenza al male con il male” di Lev Tolstoj, che denunciava il legame fra economia e violenza, e al saggio sulla disobbedienza civile del filosofo statunitense Henry David Thoreau. Tolstoj vedeva nell’esistenza degli apparati militari l’origine e la giustificazione della guerra e manifestava che la somma totale della violenza non ha altro esito che il proprio accrescimento. Thoreau sosteneva che quando la regola sociale non coincide con la regola morale si creano i presupposti per non rispettare le leggi.
Il movimento nonviolento, in Italia, è stato fondato da Aldo Capitini (1899-1968), filosofo antifascista, per il quale la critica morale della realtà, ancorata in un’educazione e una partecipazione “profetiche”, spinge al libero sviluppo individuale e sociale. Fu Capitini a proporre di scrivere la parola senza lo spazio, o il trattino tra le parole “non” e “violenza”, per sottolineare l’aspetto propositivo di una dimensione etica, uno sforzo diretto, e non un rigetto tout court. La nonviolenza, dunque, come un valore autonomo.
Altro pensatore e attivista della nonviolenza è stato il sociologo Danilo Dolci (1924-1997), il quale concepì una metodologia per concretare la partecipazione sociale teorizzata da Capitini. Si tratta di un processo maieutico di tipo socratico, per il potenziamento di quei soggetti che rapporti economici di prevaricazione hanno confinato ai margini, affinché si incentivino reti multidirezionali di democrazia di base, e gli esclusi si convertano in agenti di cambio.
Il filosofo argentino Mario Rodríguez Cobos (1938-2010), alias Silo, ne ha fatto un’elaborazione secondo la quale l’essere umano, nella sua ricerca di libertà, ossia nella lotta per il superamento delle condizioni di dolore e sofferenza, trova nella logica della nonviolenza un veicolo di rinnovamento dell’ambiente storico-sociale, coerente con il proprio registro interno di unità, spingendo l’umanità nella sua direzione evolutiva. Da questo insegnamento, è nato il Nuovo umanesimo di Silo e ha preso vita una scuola globale.
Nonostante la ricchezza di autorevoli contributi nel corso della storia del pensiero e la profondità di esperienze nella prassi sociale, ancora oggi, l’essenza della nonviolenza rimane pressoché sconosciuta. Una condotta che è legata in maniera intrinseca all’assunzione di oneri, il coinvolgimento attivo e l’azione diretta, viene propagandata come la bella illusione di persone sprovvedute che non sanno misurarsi con i fatti. Piuttosto, nelle parole di Gandhi, “invece di sparare” è necessario impegnarsi “a cercare mezzi più efficaci e moralmente accettabili” per la risoluzione dei conflitti.
La nonviolenza rappresenta lo sforzo di archiviare la brutalità, non solo sul piano dell’etica, ma soprattutto su quello dell’efficacia e della qualità dei risultati. Nella concezione gandhiana, “la pratica della nonviolenza richiede il più grande coraggio” per mettere in discussione lo status quo. Anche la noncollaborazione, in Capitini, non è indifferenza o auto-isolamento, bensì consapevolezza e responsabilità. In definitiva la nonviolenza si traduce nella scelta di operare alla fonte dei problemi con motivazioni chiare e comportamenti conseguenti.
L’enfasi è posta su un vincolo tra mezzi e fini, in cui i secondi non giustificano i primi, e dove l’identificazione delle strategie avviene in un sistema di valutazione complesso e dinamico, suffragato dalla comprensione delle radici dei dissidi e dell’evoluzione degli interessi in gioco, in un’ottica di rimozione degli ostacoli. La nonviolenza, per Capitini, “è affidata a un metodo che è aperto in quanto accoglie e perfeziona sempre i suoi modi, ed è sperimentale perché saggia le circostanze determinate di una situazione”.
“Il modo è essenziale”, per Dolci, da “morte e inesattezza non nasce la vita”. La guerra finisce per vanificare la possibilità di raggiungere obiettivi duraturi, generando distruzione e seminando instabilità e risentimento. Le vittorie militari che ne conseguono sono sempre parziali o temporali. Eppure, stati nazionali, e organismi internazionali, continuano a esprimere mentalità e decisioni del tutto anacronistiche, in contraddizione con gli stessi precetti su cui sono stati eretti: il ripudio della guerra, la promozione della pace universale, l’aspirazione alla felicità.