Cpi. Mandato d’arresto per Putin: diritto o doppiopesismo?

Evidente il gesto politico di un'istituzione ormai priva di credibilità.

di Alessandro Pompei

In merito a questo quesito è molto interessante un recente intervento del giornalista italiano Giuliano Marrucci, per quasi 20 anni una delle storiche colonne della trasmissione Report di Rai3, il quale ci offre diverse riflessioni e testimonianze di giuristi e filosofi del diritto internazionale del calibro di Norberto Bobbio, Luigi Ferraioli ed in particolare di Danilo Zolo.
Il 17 marzo la Corte Penale Internazionale ha emesso un mandato di cattura per Vladimir Putin, il quale è stato accusato di aver deportato migliaia di bambini ucraini in Russia, decisione in vero che era stata preannunciata da tempo.
Secondo quanto riferito da Repubblica, il mandato è stato anticipato per interrompere la prosecuzione del reato, mentre le autorità russe sostengono che i minori siano stati allontanati da zone a forte intensità di combattimenti e ricollocati in aree più sicure, ma va sottolineato che le in oggetto sono a maggioranza russofona, e che spesso gli abitanti del Donbass hanno parenti in Russia. In pratica, per la Corte se un bambino viene portato in Italia per sfuggire a bombe e missili è un profugo, se va in Russia è vittima di un rapimento.
Il mandato è stato emesso dopo un’indagine sul campo condotta dal procuratore capo della Corte, l’avvocato inglese Karim Khan, insieme a un team di investigatori coordinati da Eurojust, l’unità di cooperazione giudiziaria dell’Unione Europea: le prove raccolte dimostrerebbero, con “ragionevolezza”, che un numero imprecisato di bambini ucraini, ospiti di orfanotrofi, case famiglia e altri istituti dei servizi sociali, sarebbero stati trasferiti illegalmente in Russia e affidati a famiglie russe.
È fuori di dubbio che le forze armate russe, come quelle ucraine del resto, si siano macchiate di una quantità incalcolabile di crimini di guerra, e già nel 2015 l’Osce aveva denunciato eccidi, stupri e quant’altro commessi da battaglioni di paramilitari ucraini nel Donbass. Tuttavia è importante ricordare che la guerra stessa, in base al diritto internazionale, è sostanzialmente di per sé un crimine, e la maggior parte delle singole azioni effettuate per condurla concretamente lo sono ancora di più: per forza di cose solo una piccolissima parte dei crimini commessi può essere perseguita, quindi diventa dirimente chiedersi chi condanna chi, in base a cosa e con quali obiettivi.
In questo caso, come accennato dalla stessa corte, ci si trova di fronte a un mandato emanato con una tempistica “dettata da motivazioni politiche”, seguito da indagini condotte da investigatori che provengono da stati direttamente coinvolti nel conflitto e sulla parte opposta della barricata. Tuttavia le prove raccolte dimostrerebbero “ragionevolmente” un determinato crimine.
Sebbene in qualsiasi tribunale occidentale si potrebbero far saltare processi per molto meno, basta avere un buon legale.
Per avere un’idea approssimativa dell’imparzialità garantita dalla Corte Penale Internazionale fin dalla sua fondazione, si può fare riferimento a quanto scritto dal giurista di fama internazionale Danilo Zolo, scomparso nel 2018 e probabilmente insieme a Norberto Bobbio e Luigi Ferraioli uno dei filosofi di Diritto italiano più autorevoli di sempre.
In un’intervista del 2011 fatta dell’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), Zolo ha ricordato che il procuratore generale della Corte Penale Internazionale si è finora contraddistinto per il suo ossequio nei confronti delle potenze occidentali, principalmente Stati Uniti e Gran Bretagna.
Nel mirino c’era in particolare il comportamento adottato nei confronti degli innumerevoli crimini di guerra effettuati nel corso dell’invasione illegale dell’Iraq nel 2003. Zolo ha ricordato come il procuratore non abbia esitato ad archiviare ben 240 denunce formalmente presentate alla Procura contro i crimini commessi in Iraq dalle truppe anglo-americane nel 2003.
Il procuratore, continuava Zolo, non aveva avviato alcuna indagine e per l’archiviazione delle denunce, e ricordava una motivazione grottesca.
Secondo il procuratore le denunce non tenevano conto dell’assenza di qualsiasi “intenzione dolosa” da parte delle forze anglo-americane che avevano aggredito e poi occupato l’Iraq. A suo parere la strage di decine di migliaia di persone innocenti era stata involontaria.
Dopo l’Iraq, fu il turno del Sudan, con l’incriminazione e la condanna di Omar al-Bashir che, come ricordava Zolo, giuristi autorevoli e ben informati come Antonio Cassese avevano giudicato del tutto infondata!
Zolo affermava che la Corte Penale Internazionale era intervenuta anche nella crisi libica con l’obiettivo di legittimare una guerra di aggressione che violava la Carta delle Nazioni Unite.
E qui faceva notare che gli Stati Uniti, insieme a Russia, Cina e Israele, non riconoscevano la giurisdizione della Corte, ma in questo caso la rappresentante degli Stati Uniti all’ONU, Susan Rice, “chiese esplicitamente” l’intervento della Corte il 26 febbraio 2011 e solo cinque giorni dopo la Corte emise un mandato di cattura per otto cittadini libici, tra cui Muammar Gheddafi, suo figlio Saif al-Islam e il capo degli intelligence Abdullah al-Senussi.
Zolo riteneva che le prove fornite dal procuratore fossero insufficienti e che non avesse indicato le ragioni della sua certezza.
La Corte Penale Internazionale, strumento essenziale per far prevalere il diritto internazionale nelle controversie globali, è stata screditata dall’esercizio spregiudicato della capacità di influenza degli USA e dal servilismo dei loro alleati. Ciò ha minato l’idea stessa di un ordine internazionale fondato sulla legge, piuttosto che sull’arbitrio e sui rapporti di forza.
Le sentenze della corte penale internazionale, sin dalle sue origini, non sono state altro che parte integrante dell’arsenale della propaganda occidentalista: mano a mano che tale propaganda si gonfia e viene indebolita, è destinata a coprire di ridicolo l’istituzione stessa. Un po’ come i premi Nobel per la pace assegnati a presidenti di paesi in guerra, da Obama a Abyi Ahmed Ali.
Il mandato di cattura emesso contro Putin è una brutta notizia per coloro che sperano in un esercizio autorevole e imparziale del diritto internazionale volto ad evitare il rischio sempre più alto di una guerra globale, e di certo avrà uno scarso effetto, dal momento che il presidente russo verrebbe ad essere in teoria perseguibile se mettesse piede in uno dei paesi che riconoscono la Cpi, ma al momento il Cremlino sta guardando per i propri rapporti diplomatici, politici e commerciali, a est e a sud. Se quindi la Cpi è l’unica arma rimasta all’occidente nella sua guerra senza frontiere contro il resto del mondo, Putin potrà dormire sonni tranquilli.
A breve il presidente cinese Xi Jinping arriverà a Mosca, e il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Wang Wenbin, ha dichiarato che la salvaguardia della pace e la promozione dello sviluppo comune sono gli obiettivi della politica estera cinese. Ha poi aggiunto che “crediamo sempre che il dialogo politico sia l’unico modo per risolvere conflitti e controversie. Soffiare sul fuoco, alimentare il conflitto ed esercitare la massima pressione non faranno che accrescere la tensione e peggiorare le cose”.
La settimana scorsa sauditi e iraniani hanno ripreso il dialogo dopo 40 anni di guerra fredda, grazie alla mediazione cinese.
Quello indicato da Webin è l’unico approccio concreto possibile, una strategia alla quale l’Unione Europea ha voluto rinunciare nel conflitto ucraino (basti pensare che Bruxelles ha inviato a Kiev qualcosa come 17 miliardi di euro dal 2014 al 2021, cioè a prima della guerra), perdendo la sua verginità pacifista.
C’è da sperare che le dichiarazioni di una corte priva di credibilità e autorevolezza non rappresentino un ostacolo insormontabile alla ripresa del dialogo.