Fin che c’è guerra c’è speranza: aumenta il commercio di armi italiane

di C. Alessandro Mauceri –

È stata trasmessa al Parlamento la Relazione annuale relativa alle esportazioni, importazioni e transito dei materiali di armamento da e per l’Italia. Il documento relativo al 2023 è stato inviato entro i termini previsti dalla Legge 185/90 (caso più unico che raro). A parte questo dato positivo, per il resto la situazione è preoccupante. Dai dati riportati nella relazione (tre volumi per complessivi oltre 1500 pagine), pare che l’Italia abbia imparato la lezione di altri Paesi del mondo: vendere più armi e armamenti che è possibile. Oggetti solo sulla carta creati per difendersi, ma sempre più spesso pensati per uccidere e distruggere.
Molti i numeri che meriterebbero una riflessione e un dibattito in Parlamento. A cominciare dal giro d’affari complessivo degli scambi: nel 2023, in Italia, la vendita all’estero di armi e armamenti ha raggiunto la cifra iperbolica di 6,31 miliardi di euro. A questi si aggiungono altri 1,25 miliardi di euro per importazioni di armi. Da questi dati dono escluse le movimentazioni intra-comunitarie UE/SEE. E poi quelle relative ad armi considerate per uso “sportivo” (qualche anno fa fece scandalo l’esclusione da questo rapporto di una famosa pistola, arma d’ordinanza in molti corpi dell’esercito e nelle polizie di mezzo mondo, ma venduta all’estero come “oggetto sportivo”). Oltre sette miliardi e mezzo di euro, con un aumento a due cifre in molti settori. Come le cosiddette Licenze globali (sia di progetto che di trasferimento) per co-produzioni strutturate con Paesi UE-NATO che hanno fatto registrare un aumento del 37% (per un controvalore di poco meno di 1,5 miliardi di euro complessivi).
Armi e armamenti che dall’Italia sono finiti in ben 82 Paesi. Numeri che confermano un settore più florido, dopo il calo del 2013, quando le vendite erano tornate ai livelli degli anni Novanta, e il picco del 2016 dovuto alla Guerra del Golfo. Ciò dimostra, una volta di più, che per molti Paesi “fare la guerra” è un vero affare. Sono anni che il maggior esportatore in assoluto di armi e armamenti, gli Stati Uniti d’America, ha capito che il vero business non è “fare la guerra”, ma “far fare la guerra” ad altri. E vendere a chiunque montagne di armi. Basti pensare che da soli gli USA controllano oltre il 50% del mercato globale, oltre il doppio del giro d’affari in armi di tutti i Paesi europei insieme. Delle cento maggiori imprese mondiali del settore, 42 sono made in the USA. E il settore è uno dei più floridi dell’intera economia a stelle e strisce.
A leggere i numeri della Relazione appena presentata sembrerebbe che anche le banche abbiano capito quanto è redditizio “fare la guerra”: in barba alle belle parole, alle locandine ambientaliste e ai sorrisi da spot televisivo, nella Relazione compaiono praticamente tutte le maggiori banche italiane. È grazie a loro che sono stati effettuati trasferimenti di miliardi di euro.
Vendere armi e armamenti è un tema delicato. Ma lo è ancora di più vendere ad alcuni Paesi. Esistono leggi, regolamenti e trattati che tracciano linee precise e in teoria invalicabili. Limiti molte volte inutili. Non sorprende trovare tra 14 i maggiori compratori di armi e armamenti (quelli che hanno registrato oltre 100 milioni di euro nel totale delle licenze) Paesi come la Francia (al primo posto con ben 465 milioni di euro) o gli Stati Uniti d’America. Diversa è la situazione per l’Ucraina. Non è né un Paese NATO né un Paese UE. Questo non hanno impedito all’Italia autorizzare la spedizione a Kiev, solo nel 2023, di armi e armamenti per quasi mezzo miliardo di euro (417 milioni). Lo stesso dicasi per l’Arabia Saudita (363 milioni). Anche in questo caso, si tratta di un Paese in guerra. Nel 2019, il governo italiano era stato tra i primi a sospendere la vendita di armi all’Arabia Saudita, così come agli Emirati Arabi Uniti, per impedirne l’utilizzo nel conflitto nello Yemen. Ma maggio 2023 il governo italiano ha annunciato che la situazione sul campo era cambiata e non era più necessario l’embargo. “Le motivazioni alla base di tali provvedimenti sono oggi venute meno. Il contesto regionale in Yemen è cambiato, a cominciare dagli sviluppi sul terreno. Da aprile 2022, anche grazie alla tregua convenuta tra le parti, le attività militari sono fortemente rallentate e circoscritte. La significativa riduzione delle operazioni belliche comporta un’attenuazione altrettanto significativa del rischio di uso improprio di bombe d’aereo e missili, in particolare contro obiettivi civili. Riad ha portato avanti una intensa attività diplomatica a sostegno della mediazione delle Nazioni Unite e al contempo ha agito anche sul fronte economico e dell’assistenza umanitaria in maniera determinante” si legge nella nota del governo. Poche settimane dopo due rapporti, il primo di dell’organizzazione Mixed Migration Center MMC il secondo di Human Rights Watch HRW che ha ribadito che le guardie di frontiera saudite avevano ucciso centinaia di migranti e richiedenti asilo etiopi tra marzo 2022 e giugno 2023. “I funzionari sauditi uccidono centinaia di donne e bambini lontano dalla vista del mondo”, hanno detto i funzionari di HRW.
Inviare armi e armamenti non significa vendere “oggetti”, significa allearsi e fingere di non vedere cosa accade realmente. Ma questo significa condividere le responsabilità che derivano dall’utilizzo che si fa di queste armi. Nello Yemen come in Ucraina o in altri Paesi. Come Israele. La lista dei Paesi destinatari di armi e armamenti provenienti dall’Italia è lunga e a volte sorprendente (per la tipologia di Governo o per il coinvolgimento in conflitti armati e violazioni di diritti umani). Anche in questo caso si tratta di un Paese in guerra, e da molti decenni. Quanto sta avvenendo da ottobre 2023 rende la vendita di armi e armamenti a questo Paese un problema morale. A poco servono le giustificazioni di rito riportate nella Relazione dove ci si è precipitati a dire che “nel 2023, il valore delle esportazioni autorizzate (9,9 milioni) è rimasto stabile rispetto all’anno precedente, mentre quello delle importazioni ha realizzato una crescita importante, raggiungendo i 31,5 milioni (settimo posto tra i Paesi di provenienza)”, ma che “le caratteristiche dell’azione israeliana su Gaza in reazione al criminale assalto condotto da Hamas, dopo il 7 ottobre 2023 hanno indotto a valutare la concessione di nuove autorizzazioni verso Israele con particolare prudenza. È stata, come noto, sospesa la concessione di nuove autorizzazioni all’esportazione di armamenti”. Inviare armi e armamenti significa assumersi precise responsabilità morali. Altri Paesi, già prima dell’ultima nota del Consiglio di Sicurezza delle NU su Israele, hanno preferito non assumersi queste responsabilità e hanno sospeso l’invio di armi anche su accordi sottoscritti prima del 7 ottobre scorso. L’Italia ha deciso di fare diversamente.
Una scelta discutibile della quale nessuno ha voluto parlare. Un problema che in futuro potrebbe non essere più necessario affrontare: il 21 febbraio scorso, nel silenzio più totale da parte dei media, il Senato ha approvato un disegno di legge che cancella i meccanismi di trasparenza e controllo parlamentare sul commercio e le esportazioni di armi e sulle banche che finanziano queste operazioni. Ora il testo del disegno di legge è in attesa del voto alla Camera (si prevede che arriverà in aula a maggio) e sarà esaminato dalle Commissioni riunite esteri e difesa. Se sarà approvato così com’è, se nessuno riuscirà a far ripristinare il controllo del Parlamento sull’export di armi, dal prossimo anno gli italiani non sapranno più niente di questi scambi di armi e armamenti. Quante armi prodotte in Italia sono state spedite all’estero, magari a Paesi in guerra. O a Paesi che le useranno non per difendersi da potenziali attacchi ma per uccidere e distruggere intere popolazioni.