Il ‘miracolo’ cinese e l’immoralità dello sfruttamento del lavoratore: anche il Dragone conosce gli scioperi

di Enrico Oliari –

C’è un posto al mondo dove tutto sembra magico, dove la crisi non esiste, dove i lavoratori sono entusiasti di dedicare più della metà della loro giornata alla fabbrica e dove il PIL si è portato in pochi decenni da zero a 10 trilioni di dollari. E’ un posto dove i miracoli e le trasformazioni avvengono davvero, tanto che il comunismo di Mao si è fuso in modo del tutto fisiologico con il fare cassa, con il far girar soldi, in altre parole con l’occidentalissimo capitalismo, importato ad hoc su volere dello stesso partito, con i molti difetti che forse qualcuno ha volutamente sottovalutato: lo sfruttamento del lavoratore, l’individualismo, l’aumento (spropositato) della forbice fra i pochi ricchi ed i molti poveri.
Il ‘miracolo economico cinese’ merita infatti tutte le virgolette del caso, se si pensa che è proprio il grado di povertà diffuso e la mancanza di un ceto medio ben delineato a renderlo zoppo ad un piede e difatti la stessa quotazione del PIL è del tutto confutabile se messa in rapporto con i dati oscillanti dei consumi di energia (forti incrementi alternati a forti decrementi) ed ancor più se viene preso in considerazione il fatto che è bastato alzare la soglia della povertà dai 1.196 renminbi al mese fissati solo due anni fa (187 dollari) a 2.300 renminbi (361 dollari) per ritrovarsi sul piatto ben 128 milioni di poveri: l’inflazione in Cina è e resta fra il 5 ed i 6 per cento.
A vendere bene tenendo bassi i costi delle merci sono capaci tutti, specialmente se per arrivare a quei prodotti si costringono i lavoratori a turni massacranti, a salari minimi ed a nessuna o poche garanzie.
E difatti man mano che ci si ‘occidentalizza’, anche nel paese del Dragone i malumori e le proteste spuntano come i funghi, tanto che, in barba al monocolore rosso, gli scioperi non si contano più.
Le ultime notizie, giunte questa mattina, parlano di circa mille operai della giapponese Hitachi scesi in piazza a Shenzhen, nella provincia sud orientale del Guandgong, per protestare contro la vendita della fabbrica ad una nuova Corporation straniera e soprattutto per la bassa qualità dei salari, mentre solo pochi giorni fa altrettanti lavoratori di un subappaltatore di Apple e Ibm, nel sud della Cina, erano entrati in sciopero per protestare contro gli straordinari forzati, gli incidenti sul lavoro ed i licenziamenti. Si tratta solo degli ultimi episodi del marcato malumore che corre fra le tute blu cinesi, spesso impiegate in ditte subappaltate per produrre pezzi per la grande industria dell’elettronica:  solo mesi fa ben 4mila dipendenti della sudcoreana Simone Limited a Hualong, nel villaggio di Meishan, si sono astenuti dal lavoro per giorni chiedendo migliori condizioni, mentre 2mila operai di una fabbrica giapponese della Citizen Watch Co. a Changan hanno scioperato contro l’imposizione di 5-6 ore di straordinario obbligatorio senza corrispettivo salariale.
L’investire ed il produrre in Cina sembra quindi essere sinonimo di immoralità dello sfruttamento del lavoratore, cosa decisamente in contrapposizione con la cultura maoista di cui ancora si fanno latori i membri del partito unico. D’altronde i cinesi sono tanti, circa un miliardo e 400milioni, e Pechino non intende perdere l’immagine della nuova Cina se qualche migliaio di improvvisati muratori perde la vita cadendo dalle impalcature di bambù impiegate per innalzare grattacieli sempre più alti o se a centinaia rimangono sepolti vivi nelle miniere, sempre più profonde, diffuse su tutto il territorio.