Il Lago d’Aral sparirà nel 2020: un disastro ambientale fatto di incapacità, interessi e veleni

di Notizie Geopolitiche – 

“Il più grave disastro ecologico della storia dell’umanità“, così Al Gore, nel suo libro “Earth in the balance”, definisce la storia del Lago d’Aral, quello che un tempo era il quarto lago più grande del pianeta e che oggi ha lasciato il posto ad un deserto insalubre, condannato a morte dalla scellerata politica economica sovietica che lo ha ridotto a due grosse pozze agonizzanti di acqua salata.
Il Lago d’Aral è, o meglio era, un enorme specchio d’acqua, situato in Asia centrale, dove le risorse idriche sono molto scarse ed oggi, dopo la caduta dell’URSS, è diviso tra Kazakistan a nord ed Uzbekistan a sud.
Ad alimentare il grande lago erano i due affluenti principali, l’Amu Darya ed il Syr Darya, entrambi nascenti dai ghiacci perenni rispettivamente del Pamir e del Tien Shan.
Ormai il grande lago si è quasi completamente prosciugato, ma un tempo, fino a poco più di cinquant’anni fa, era il motore di una società florida e la principale fonte di sostentamento delle oltre 150mila persone che risiedevano nelle città sulle sue coste.
Da sempre l’economia delle popolazioni stanziate nella zona dell’Aral era fondata sulla pesca e, fino al 1960, era fonte di un sesto della produzione ittica dell’Unione Sovietica. Ad oggi la flora e la fauna della regione sono invece in condizioni disperate, delle 180 specie animali ne sono rimaste circa 40, mentre la fauna acquatica è diminuita dell’80% (nelle zone in cui l’acqua c’è ancora).
Ciò che ha segnato il destino del Lago d’Aral è stata la decisione del governo sovietico, nell’ambito del piano per l’incremento della produzione di cotone, di deviare l’acqua dei due affluenti del lago verso le campagne, attraverso la costruzione di una rete di canali d’irrigazione lunga oltre 47mila chilometri, che avrebbe consentito di trasformare ampie distese di terra in piantagioni di quello che i russi chiamavano “oro bianco”, e che tali sono rimaste fino al giorno d’oggi.
La lenta morte del lago è osservabile da satellite, della superficie di circa 68mila chilometri quadrati che misurava nel 1960 ad oggi ne rimangono poco più di 17mila, divisi tra due laghi minori, nati dal prosciugarsi del lago vero e proprio, il Piccolo Aral a nord, in territorio kazako ed il Grande Aral ad ovest, principalmente situato in territorio uzbeko.
Il progetto iniziale del governo sovietico era quello di creare nuovi terreni coltivabili in modo da diventare il principale produttore mondiale di cotone, riconvertendo forzatamente quelli che un tempo erano frutteti ed obbligando la popolazione a contribuire alla colossale opera.
Non fu però una sorpresa il prosciugarsi del lago, infatti molti esperti russi consideravano il corpo d’acqua nient’altro che un’anomalia della natura ed infatti l’intento era quello di lasciare che si ritirasse, finché non fosse diventato un enorme acquitrino che, secondo i progettisti, sarebbe poi diventato un’enorme risaia.
Purtroppo la richiesta idrica delle coltivazioni intensive, i cui canali mal costruiti disperdevano enormi portate d’acqua, era troppo elevata per consentire all’ Amu Darya, principale immissario, di giungere fino al lago che, a poco a poco, ha cominciato ad evaporare e ritirarsi, rendendo le città, che un tempo erano sulla costa, dei gruppi di case in mezzo al deserto, trasformando, quello che una volta era uno specchio d’acqua, in un’enorme distesa disseminata di rottami arrugginiti che, un tempo, erano le navi dei pescatori ormai senza lavoro.
La reale gravità della situazione si è però vista solo negli ultimi decenni; ora che la maggior parte del lago è evaporata, ci si accorge che il grande deserto salato, una volta ricoperto d’acqua, con il passare del tempo si è impregnato anche di pesticidi e fertilizzanti defluiti dalle enormi piantagioni; infatti, per colpa dello sfruttamento intensivo delle terre destinate alla coltivazione unicamente di cotone, il suolo si è impoverito, rendendo necessario l’uso di sostanze chimiche per mantenerlo produttivo. A causa dei forti venti che spirano nella regione, enormi nubi di polveri tossiche, formate dalla sabbia che costituiva il fondale del lago, si diffondono ora su aree di notevoli dimensioni e raggiungono distanze molto grandi, tanto che tracce di queste polveri sono state trovate anche sull’Himalaya, a migliaia di chilometri di distanza.
Ovviamente questi fenomeni non sono stati senza conseguenze: in gran parte dei milioni di persone che vivono nella regione si sono manifestate malattie respiratorie e, contemporaneamente, l’aumento esponenziale dei casi di cancro ed anemia, tanto che il tasso di mortalità infantile è arrivato al  75 per mille mentre quello di mortalità per parto al 12.
Come se non bastasse, su quella che un tempo era l’isola di Vozroždenie, ormai diventata una penisola, è situata una base militare dismessa, triste eredità dell’Unione Sovietica, in cui si svolgevano test su armi chimiche e batteriologiche. Oggi l’area è stata bonificata, ma la presenza di veleni e soprattutto antrace non sembra del tutto eliminata nonostante gli sforzi congiunti di Kazakistan, Uzbekistan e Stati Uniti.
I tentativi di riportare alla normalità la situazione, anche se fiacchi, non sono mancati: nel 1994 ad esempio si provò a raggiungere un accordo tra Kazakistan, Uzbekistan, Tagikistan, Kirghizistan e Turkmenistan per destinare l’1% del loro PIL al fine di consentire il ritorno del Lago d’Aral al suo stato iniziale, mentre un altro progetto, subito abbandonato per gli enormi costi (circa cinquanta miliardi di dollari), consisteva nel deviare parte delle acque del Volga, dell’Ob e dell’Irtyš nel lago, per compensare il mancato apporto idrico dei suoi immissari naturali.
L’impegno ci fu soprattutto da parte del Kazakistan che, con l’aiuto della Banca Mondiale, ha costruito una diga che sembra possa salvare almeno il cosiddetto Piccolo Aral, rendendo nuovamente vivibili le zone su quella parte di costa.
Le difficoltà maggiori si sono però presentate per l’atteggiamento del governo uzbeko in quanto, chiudere le piantagioni risulta impossibile per i posti di lavoro che ormai forniscono e che la ripresa dell’attività ittica non riuscirebbe per nulla a compensare, mentre l’ipotesi di spendere denaro per migliorare l’efficienza dei canali e delle piantagioni, al fine di risparmiare acqua che potrebbe così giungere al lago, nemmeno è presa in considerazione, date le scarse risorse economiche a disposizione del paese.
L’opinione di Tashkent è che la parte dell’Aral di sua competenza è ormai irrecuperabile e l’unica iniziativa reputata plausibile è quella di piantare una quantità enorme di haloxylon ammodendron, un arbusto che è in grado di crescere anche in terreni molto salini e che, a dire dei progettisti, limiterebbe anche la quantità di polveri sollevata dal vento.
Il vero motivo di questa rassegnazione del governo uzbeko sembra però essere la scoperta di un ricco giacimento di gas naturale nella zona del lago, per il quale sono già in corsa le aziende cinesi e che sarebbe più difficile da estrarre se il bacino fosse nuovamente riempito d’acqua.
Secondo alcuni calcoli, il Lago d’Aral nel 2020 sarà completamente evaporato ma, visti i segnali dati da autorità locali e dalle multinazionali di gas e petrolio, le speranze di vederlo tornare, come lo definì Ryszard Kapuscinski, un “incredibile mare in mezzo ai deserti” sembrano quasi vane.