Inquinamento e riscaldamento del pianeta: manca la volontà (dell’Onu) di cambiare

di C. Alessandro Mauceri –

inquinamentoNei giorni scorsi a Copenaghen sono stati presentati i risultati del rapporto sul riscaldamento globale realizzato dalle Nazioni Unite. Le conclusioni sono che il cambiamento climatico esiste e, in barba a tutti gli avvisi e gli accordi internazionali sottoscritti dai vari Paesi negli anni passati, è in aumento: il trentennio tra il 1983 e il 2012 è stato probabilmente il più caldo degli ultimi 1.400 anni. Ma altri dati importanti sono stati evidenziati: che la causa del surriscaldamento è l’influenza delle attività umane, che il cambiamento ha subito una accelerazione a partire dagli anni cinquanta e che, senza una riduzione dell’utilizzo di combustibili fossili, entro la fine di questo secolo le temperature potrebbero essere di cinque gradi superiori ai livelli preindustriali. Il documento presentato che comprende le conclusioni di tre precedenti studi, è stato approvato dal Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (Ipcc).
In realtà, il risultato più importante che è emerso dagli studi effettuati è che la causa di questo surriscaldamento è quasi completamente da attribuire all’uomo: gli scienziati hanno affermato che l’aumento dei gas serra dovuto all’utilizzo di combustibili fossili e la deforestazione sono le principali cause del riscaldamento della Terra dalla metà del ventesimo secolo ad oggi. Ciò significa che limitare il suo impatto permetterebbe di ridurre le emissioni di gas serra a zero nel corso di questo secolo.
Eppure, sempre secondo quanto riportato dai ricercatori, ridurre l’impatto delle scelte dell’uomo sull’ambiente non sarebbe difficile: basterebbe, in primis, diminuire (se non abbandonare) la dipendenza dal petrolio, dal carbone e da tutti i combustibili fossili. “Abbiamo i mezzi per limitare il cambiamento climatico”, ha detto il presidente dell’Ipcc, Rajendra Pachauri, che ha poi aggiunto: “Le soluzioni sono molte e consentono la continuazione dello sviluppo economico e umano. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è la volontà di cambiare, che confidiamo sarà motivata dalla conoscenza e dalla comprensione scientifica del cambiamento climatico”.
Che queste fossero le linee guida da seguire per ridurre l’impatto delle scelte fatte da alcune popolazioni sull’ambiente non è una novità. Era chiaro già più di une ventennio fa. Fu per questo motivo che fu proposto il protocollo di Kyoto, il trattato riguardante il riscaldamento globale presentato nella città giapponese da cui prese il nome, l’11 dicembre 1997. Al protocollo aderirono quasi tutti i 180 Paesi che parteciparono alla Conferenza COP3 della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC). A non firmare il protocollo furono la maggior parte dei Paesi principali responsabili delle emissioni di gas serra. Non aderirono gli Stati Uniti d’America, responsabili da soli, del 36,2% del totale delle emissioni di biossido di carbonio. Gli Usa parteciparono agli incontri, ma poi non fecero nulla di concreto. Come non fecero nulla altri Paesi, come India e Cina, che pur ratificando il protocollo, non furono considerati “obbligati” a ridurre le emissioni di anidride carbonica in quanto “Paesi in via di sviluppo”. Altri Paesi, invece, pur aderendo al Protocollo di Kyoto, non hanno mai trasformato in legge le misure accettate. E anche la Russia aderì solo nel 2004.
Già allora fu evidente che il problema non era chi e quanto inquinava o gli effetti che questo inquinamento avrebbe avuto sulla Terra. Erano tutte cose ben note. Il problema era il rapporto di forza tra i Paesi ricchi e quelli in via di sviluppo con i primi che chiedevano a tutti di ridurre gli effetti delle loro politiche produttive o di ammettere la regola della “compensazione” (in base alla quale un Paese può inquinare più di quanto dovrebbe a patto che un altro Paese si impegni ad inquinare meno dei limiti che dovrebbe rispettare), e i secondi che rivendicavano il proprio diritto a fare quello che i Paesi ricchi avevano già fatto fino ad allora.
Quale sia la situazione dell’ambiente è cosa nota. E non da ora, ma da molti anni. E si sa anche che i costi da sostenere per evitare di oltrepassare la “linea di non ritorno” non sarebbero poi così alti: secondo il rapporto, modificare la produzione energetica per renderla ecosostenibile, costerebbe solo lo 0,06 per cento della crescita annua mondiale del PIL, un’inezia. A patto, però, di intervenire tempestivamente. “I costi cresceranno enormemente se continuiamo a rimandare l’intervento”, ha dichiarato Rajendra Pachauri, presidente dell’Ipcc. “Il costo dell’inazione sarà orribilmente più alto di quello dell’azione”.
Il vero problema è che, per chi ha gestito il problema “emissioni di CO2” e “ambiente”, essere costretto ad adattarsi o anche solo essere indicato come principale responsabili degli effetti che certe scelte economiche stanno avendo sulla vita di tutti gli abitanti del pianeta, non è “politically correct”. Forse è per questo motivo che, nella sintesi sulle conclusioni del rapporto sullo stato dell’ambiente presentato a Copenaghen dalle Nazioni Unite la parola “pericoloso” riferita allo stato dell’ambiente o al modo di continuare a produrre e a gestire il problema da parte di molti Paesi, è scomparsa. Al suo posto i ricercatori hanno preferito adoperare la parola “rischio” (che, però, è ripetuta ben 65 volte nelle 40 pagine della sintesi finale del rapporto).
E c’è già chi sostiene che l’incontro dei giorni scorsi a Copenaghen, sia stata una vera e propria “debacle”. Non a caso, lo stesso segretario delle Nazioni Unite ha rinviato tutto alla prossima conferenza di Parigi del dicembre 2015, dove si punta a concludere un accordo che sostituisca il Protocollo di Kyoto. “Sono sicuro che possiamo farcela”, ha detto Ban Ki-Moon, parlando della prospettiva di concludere un nuovo trattato internazionale sul clima”. E ha continuato “Il Protocollo era un trattato vincolante, che imponeva ai firmatari di tagliare le emissioni di gas serra raggiungendo specifici obiettivi. Che però non vincolavano i due Paesi che emettono più gas: gli Stati Uniti, che non hanno mai ratificato il trattato, e la Cina, esentata in quanto considerata un paese in via di sviluppo”. Quindi il problema è ben chiaro e non è di natura scientifica, ma politica.
Il problema non è lo stato dell’ambiente o il modo in cui la situazione sta peggiorando o di chi sia la colpa. Il problema è riuscire a imporre ad alcuni Paesi, guarda caso proprio quelli maggiormente responsabili dell’inquinamento del pianeta, misure che consentirebbero di ridurre l’impatto sull’ambiente.
E questo pare proprio che, almeno stando ai risultati e alle loro dichiarazioni, le Nazioni Unite non siano state in grado di farlo.