Isis: “Cui prodest?”

di Axel Famiglini –

isilPremessa.
Fra la fine del 2010 e l’inizio del 2011, il Medioriente ed il Nord Africa sono stati scossi da una vastissima ondata di proteste, battezzate dai media con il termine di “primavere arabe”, le quali hanno portato, nei casi più gravi, al rovesciamento di regimi dittatoriali di vecchia data, come in Egitto o in Libia, se non allo scoppio di veri e propri conflitti settari, connotati da una ferocia ed una barbarie senza pari, come quello in corso nella martoriata Siria. Chiunque abbia mai osservato i confini politici degli stati coinvolti in questa imponente ondata di rivolte, avrà sicuramente notato la precisione geometrica con la quale sono stati tracciati. E’ in tal senso noto che Gran Bretagna e Francia, attraverso il celebre accordo Sykes–Picot, siglato nel 1916, stabilirono, pur con ulteriori modificazioni successive, le rispettive zone di influenza sopra i territori appartenenti al morente Impero Ottomano, trasformando il Medioriente in una sorta di grande scacchiera internazionale ed imponendo a buona parte di esso un ordine geopolitico del tutto nuovo rispetto alla passata dimensione “ecumenica” che caratterizzava l’epoca ottomana. In particolare, l’ambiziosa architettura che tutt’ora connota l’accordo Sykes–Picot, è sopravvissuta sino al giorno d’oggi, grazie ad una sua fondamentale accettazione da parte delle due superpotenze emerse dalla catastrofe rappresentata dal secondo conflitto mondiale, gli USA e l’URSS, le quali hanno anch’esse utilizzato gli stati ed i governi sorti nel Vicino Oriente dalle ceneri della prima guerra mondiale, come pedine di un gioco geostrategico molto più ampio ed articolato. Terminata la guerra fredda, gli Stati Uniti raggiunsero l’apice della loro potenza politica e militare ed in particolare in Medioriente poterono sancire attraverso un conflitto campale, la cosiddetta “Prima guerra del Golfo”, la propria pressoché totale egemonia sull’area. La storia, come dichiararono alcuni commentatori dell’epoca, sembrava ormai “finita” e gli anni ’90 trascorsero, bene o male, nel solco di una lunga autocelebrazione della potenza americana trionfante, particolarmente altisonante a livello cinematografico. In realtà la storia, probabilmente, era appena ricominciata a scorrere, dopo gli anni “gelidi” della guerra fredda, e l’Hybris stava nuovamente per mietere le sue vittime. I noti fatti dell’undici settembre 2001, caratterizzati dallo sconvolgente attacco al “World Trade Center” che ha scioccato il mondo intero, sembrarono in qualche modo voler rimettere in discussione il ruolo centrale del governo americano nel mondo e, pertanto, gli Stati Uniti, abboccando all’amo di un certo Osama bin Laden, loro vecchia conoscenza nonché diabolica scheggia impazzita, si lanciarono impetuosamente in una colossale guerra contro il terrorismo che li ha portati ad occupare prima l’Afghanistan, la “centrale del terrore”, e poi, a mezzo di motivazioni ben più fragili, l’Iraq. Gli esiti di questi due conflitti si tramutarono presto in una catastrofe totale per gli Stati Uniti, sia di natura politico-militare che finanziaria, costellata da numerosissimi ed incredibili errori strategici e caratterizzata da costi insostenibili anche per le copiose risorse a disposizione del governo federale americano.
Si è pertanto giunti all’alba delle cosiddette “primavere arabe” in una situazione, sul campo occidentale, assai compromessa, in particolare dopo che gli elettori americani, pesantemente scottati dalle conseguenze economiche dell’era Bush, avevano pensato “bene” di eleggere quale presidente della più grande potenza militare del mondo “tal” Barack Obama, uomo politico di straordinarie qualità comunicative, ma lontano anni luce dalla tradizione politica americana. Obama, appena entrato in carica, ha fin da subito fatto comprendere agli Americani e al mondo che “la musica era cambiata” e che gli Stati Uniti in futuro si sarebbero ben guardati dal farsi coinvolgere in nuovi teatri di guerra internazionali. Isolazionismo e non-interventismo hanno caratterizzato fin da subito, nonostante le resistenze dei “falchi americani”, il nuovo corso obamiano, con conseguenze che si sarebbero presto scontate sul piano internazionale allo spirare del primo vento di crisi.

Il re è nudo.
L’anno 2011 ha certamente rappresentato un anno rivoluzionario non solo per i popoli del mondo musulmano ma anche per la politica internazionale. Le rivolte in Medioriente ed in Nord Africa sono state il vero banco di prova della politica obamiana di “non intervento” e di fondamentale accettazione passiva dei mutamenti in atto, una sorta di “gesto dell’ombrello” che ha lasciato assolutamente sbigottiti non solo i tradizionali alleati arabi del Golfo, alle prese con sudditi sempre più turbolenti, ma anche l’Europa intera, abituata, da sessant’anni, a vivere comodamente sotto l’ombrello americano e a riconoscere nella politica statunitense la continuazione storica della propria politica estera tradizionale. Quando un impero sta crollando, o si accinge a vacillare in maniera rovinosa, molto spesso la transizione verso un nuovo ordine assume connotazioni caotiche, talvolta riportando in auge vecchie potenze di un tempo ed elevando agli onori della cronaca attori internazionali di costituzione più recente; di questi vecchi e nuovi attori mondiali alcuni appaiono solo alla ricerca di una fetta del bottino, altri sono effettivamente animati anche dall’intenzione di salvare il salvabile. E’ ciò che sostanzialmente è accaduto e sta accadendo in Medioriente e Nord Africa, dove il caos regna sovrano e la politica americana sembra aver cessato di avere un ruolo sostanziale, per quanto rimanga quello apparente, ovvero quello di rappresentanza, il quale tuttavia non riesce più a “portare a casa” risultati utili. E’ stato evidente, ad esempio, il ruolo di primo piano assunto dalla Francia, seguita a ruota dal Regno Unito, nella crisi libica, nella quale Sarkozy, oggi caduto in disgrazia in Patria per ragioni di politica interna non completamente estranee all’avventura “d’Outremer” nella Tripolitania del XXI secolo, fece le veci di Obama, il quale, solo grazie all’intercessione dell’allora Segretario di Stato Hillary Clinton, “prestò” all’Europa le forze armate necessarie per eliminare Gheddafi sia politicamente che fisicamente. Altrettanto evidente è stato il tentativo del premier britannico Cameron di promuovere un’azione simile in Siria, arrivando ad ipotizzare l’addestramento di un esercito rivoluzionario di centomila uomini da dirigere contro il dittatore Assad, lo stesso premier che, ahilui, nel momento in cui avrebbe dovuto vivere “la sua ora migliore”, non ha saputo disciplinare la sua maggioranza parlamentare in sede di votazione, di fatto perdendo completamente l’occasione politica per un attacco risolutore della crisi siriana e, contestualmente, delegittimando seriamente il suo stesso ruolo politico internazionale. Coloro che tuttavia hanno accusato maggiormente il colpo del disimpegno statunitense sono stati i Paesi del Golfo, i quali hanno sempre contato sulla protezione americana dei loro interessi, in particolare contro il tradizionale antagonista rappresentato dall’Iran dell’integralismo sciita. Infatti, mentre il Medioriente era scosso dalle rivolte popolari e gli Americani o stavano a guardare o facevano “pasticci” come in Egitto, Teheran – e la Russia dietro di questa – aveva ben compreso che nuovi spazi si stavano aprendo all’orizzonte delle piane desertiche poste dinanzi a sé e che la penisola arabica non rappresentava più un territorio così ostico da “attraversare a cavallo della storia” come in passato. Ciò indusse l’Arabia Saudita, assieme ad altri Paesi del Golfo, ad uscire dai propri confini desertici con armi e miliardi di dollari, per iniziare a puntellare il Medioriente con forze politico-militari che costituissero una sorta di contraltare alle mire iraniane, non senza subire l’onnipresente ed ambigua ambizione internazionale di un altro attore regionale dell’area, il Qatar. E’ in Siria che il conflitto storico tra Sciiti e Sunniti ha raggiunto il suo acme e la sua dimensione più contorta ed è intorno ad esso che ruotano gli avvenimenti della più grave crisi geopolitica del secondo dopoguerra.

Che cosa rappresenta veramente l’ISIS?
Dall’undici settembre 2001 in avanti, tantissimo è stato scritto sui gruppi terroristici islamici e sulle loro aspirazioni globali intrise di fanatismo religioso. Tuttavia probabilmente non molti hanno compreso le realtà profonde che contraddistinguono i luoghi di incubazione da cui tali gruppi traggono la loro origine ed il loro sostentamento sia umano che materiale. Le sterminate aree desertiche del Medioriente, del Magreb nonché le steppe dell’Asia centrale sono contraddistinte da una plurimillenaria tradizione socio-politica di carattere tribale; gli stessi stati sorti nel corso dei secoli lungo queste vaste lande hanno molto spesso tratto la propria linfa vitale da un ancestrale bacino culturale di natura nomade o semi-nomade. Parliamo di terre percorse in lungo ed in largo, nel corso della storia, da numerosi gruppi etnici, indoeuropei e non, ed in particolare è ben noto che le invasioni turco-mongole abbiano lasciato un’importantissima impronta socio-culturale sulle genti che vivono all’interno di questo antichissimo crogiolo di umanità. I guerriglieri che vivono alla macchia in Afghanistan o a cavallo tra Siria ed Iraq, per anni disperatamente inseguiti dalle truppe occidentali impantanate in un ambiente culturale ostile, quasi alieno e assai pericoloso, molto probabilmente condividono una visione del mondo assai più prossima a quella, ad esempio, di un Tamerlano o di un Emiro di Bukhara, quest’ultimo tristemente noto, ai tempi, alle forze coloniali britanniche in India, che a quella di uno qualunque dei nostri filosofi o legislatori del cosiddetto “mondo occidentale”, eccetto forse, guarda caso, il noto re babilonese Hammurabi, uno dei padri della legge del “taglione”. E’ in questo contesto che dovremmo ricercare le origini culturali dello jihadismo, nel quale il carattere estremistico e violento di certi soggetti appartenenti all’“Umma”, espresso con veemenza in nome della religione, si tramuta in mero “instrumentum regni” di una ritrovata dimensione tribale, propria di chi rifiuta l’occidentalizzazione a volte incarnata da atti di imperio come, ad esempio, il già citato accordo Sykes–Picot. Nel momento in cui prima i Sovietici in Afghanistan e poi gli Americani in Iraq hanno provocato, a causa della guerra e degli errori politico-militari commessi, come la frettolosa dissoluzione dello stato baathista a Baghdad, il collasso delle fragili istituzioni di stampo occidentale che reggevano le sorti di quei Paesi nel consesso internazionale, le uniche “istituzioni” che sono rimaste in piedi sono state quelle rappresentante dagli antichi clan tribali precedenti all’occidentalizzazione del Paese. Quindi, nel momento in cui riscontriamo, in maniera condivisa, la dimensione tribale di tali società poste ancora lungo il sentiero della modernità, l’ISIS, sorta, nella sua forma primordiale, nel contesto della cosiddetta “insorgenza” irachena sunnita, assume pienamente i connotati di un gruppo animato da una cultura ancestrale presso la quale la violenza e la cruda efferatezza, in un contesto bellico, rappresenta assolutamente la norma, una ferocia che, a seguito dell’islamizzazione di epoca medievale dei nomadi che vivevano ai confini ed all’interno del mondo sedentario dell’Asia, ha continuato a trovare una sua giustificazione culturale in seno ad una distorta interpretazione del credo promosso da Maometto, come la perpetua lotta contro il cosiddetto “infedele”.
Sotto tale prospettiva il nucleo originario dell’ISIS, la cui storia, assieme alle varie nomenclature attraverso le quali l’organizzazione si è evoluta nel tempo, qui non ripercorriamo, non appare troppo diverso da ciò che può essere paragonato ad un manipolo di soldati di ventura, un gruppo di “mamertini d’oriente” che ha trovato nel conflitto armato e nel terrorismo una propria ragione di esistere ed una fonte da cui trarre sostentamento. Nell’Iraq distrutto dalla guerra del 2003, una larga fetta della popolazione era rappresentata da sbandati dell’esercito e della polizia, ex-impiegati della pubblica amministrazione ed ex-baathisti. In tale situazione, venuta meno la presenza dello stato centrale, le istituzioni primordiali, i clan, hanno riassunto su di sé le prerogative che le tribù, di concerto, avevano in passato trasferito all’entità statale ora mancante, la quale un tempo veniva retta da quel rappresentante tribale che garantiva alle tribù più importanti ed influenti del Paese, in cambio del loro sostegno, un determinato status sociale, ovverosia, in ultimo, il fu Saddam Hussein. La religione, in ambito tribale e tradizionale, ha sempre funto sia da collante che da fonte legislativa e ne è pertanto riemersa prepotentemente l’importanza sociale in tale frangente. In questo contesto di grave conflitto tra “indigeni” e truppe straniere, sono pertanto “esplosi” i gruppi jihadisti in Iraq, con dinamiche analoghe a quelle con cui si fecero strada gruppi similari nell’altrettanto disastrato Afghanistan.

L’ISIS e la Siria.
Il gruppo dirigente dell’attuale ISIS, vivendo, fondamentalmente, grazie alla guerra e al terrorismo organizzato, ha indubbiamente trovato nel conflitto siriano una grande opportunità con la quale soddisfare i propri scopi costitutivi, vendendo, nel senso più letterale del termine, la propria “mission”, al mondo sunnita, sia al fine di attrarre simpatie, aiuti ed elargizioni da parte di danarosi privati del Golfo animati dall’ideologia della jihad globale, sia per invogliare nuove reclute ad aderire all’organizzazione. Da questo punto di vista l’ISIS, pur propugnando uno stile di vita di stampo medievale, ha saputo utilizzare in maniera eccellente i mezzi di comunicazione tradizionali ed informatici che la modernità ha messo a disposizione e ha fatto propri quegli aspetti organizzativi che sono peculiari di una qualunque attività commerciale di stampo occidentale, con tanto di relazioni e rendiconti dettagliati sui macabri obiettivi raggiunti. Tale è, in fin dei conti, la realtà di un mondo, quello mediorientale, spaccato a metà tra tradizione e modernità, una situazione che può, da un lato, risultare addirittura grottesca, ai nostri occhi, ma che, dall’altro, ha prodotto gravi tensioni in seno a quelle società, fornendo le giustificazioni ideologiche per la nascita della stessa Al Qaeda. Ciononostante rimane ben noto che una parte importante delle entrate finanziarie dell’ISIS derivi da mera attività di rapina, estorsione, contrabbando nonché sequestri di persona. In tale prospettiva non appare del tutto strano che, ad un certo punto del conflitto siriano, l’ISIS, inizialmente chiaramente collocato nel campo dei ribelli anti-Assad, abbia colto l’opportunità di sfruttare lo sbandamento di questi ultimi, seguito al mancato attacco occidentale contro il regime siriano, per accrescere la propria importanza ed il proprio ruolo, attirando su di sé gli occhi calcolatori di Assad. Tant’è che, ad un certo punto, secondo i servizi segreti occidentali e gli stessi ribelli siriani moderati, l’ISIS, assieme ad altri gruppi integralisti come Al-Nusra, iniziò ad intrattenere importanti rapporti economici con il regime, come, ad esempio, la vendita del petrolio posto sotto il loro controllo, e, contestualmente, la stessa ISIS cominciò a rivolgere sempre più spesso le armi contro altri gruppi armati appartenenti all’opposizione siriana, ricevendo in cambio dal regime alcuni periodi di tregua temporanea, durante i quali le forze governative fondamentalmente fingevano di ignorare la loro presenza militare. E’ altresì risaputo che, sebbene l’ISIS si sia ufficialmente costituito nell’aprile del 2013, le sue radici risalgano ad “Al Qaeda in Iraq”, ovvero allo stesso gruppo jihadista che Assad finanziava e sosteneva a metà degli anni 2000 per combattere gli Americani proprio nelle zone tutt’ora occupate dall’ISIS in Iraq. I rapporti tra regime siriano e i terroristi sarebbero andati ben oltre a ciò: a quanto pare Assad non si sarebbe solo limitato ad infiltrare organizzazioni come l’ISIS o ad utilizzare jihadisti, che avevano già collaborato in passato con Damasco nello scenario iracheno, per organizzare attentati suicidi nel 2012, con il fine di screditare l’opposizione siriana e ricattare l’Occidente, ma avrebbe anche scientemente rilasciato dalla famigerata prigione Sednaya, nel maggio 2011, dozzine di terroristi già impiegati in Iraq contro gli Americani i quali, molto probabilmente, sono poi entrati nei ranghi delle frange più violente delle organizzazioni islamiche presenti in Siria, le stesse che spesso hanno trattato veri e propri accordi di non aggressione con il regime, pur dichiarandosi ufficialmente ostili ad esso. Tutto ciò accadeva, fra l’altro, nel momento in cui, agli inizi della rivolta, il regime attaccava, imprigionava, torturava ed uccideva per le strade gli attivisti democratici e laici dell’opposizione siriana che chiedeva ripetutamente, nel corso di imponenti manifestazioni, la fine della dittatura e le dimissioni di Assad. In buona sostanza il “gioco sporco” dell’ISIS e del governo di Damasco ha permesso a tale organizzazione integralista di crescere in potenza ed importanza a scapito degli altri gruppi armati ribelli e di assumere, contestualmente, il controllo di una parte importante dello stato siriano, divenendo, de-facto, una sorta di “foederatus” del regime, nel senso più tardo-imperiale del termine, per quanto incostante e non affidabile, essendo comunque animato dalla ferrea volontà di soverchiare qualunque possibile rivale e di ricavarsi uno spazio “privato” in quell’area di mondo. E’ importante altresì ricordare che se da un lato sia possibile che l’Arabia Saudita, sponsor principale della rivolta siriana, abbia inizialmente visto di buon occhio l’ingresso dell’ISIS in Siria, dall’altro, nel momento in cui l’ISIS ha iniziato ad attaccare i “clienti” sauditi in Siria e a dichiarare la volontà di distruggere la stessa Casa dei Saud (come, del resto, propagandava la stessa Al Qaeda), reputata come corrotta e, fondamentalmente, “parte del problema”, appare assai improbabile attribuire la presente campagna irachena dell’ISIS ad una fantomatica volontà di potenza dei Sauditi. Ciò che invece sembra sempre più evidente è che l’ISIS abbia raggiunto già da tempo la piena autosufficienza economica e che non necessiti di particolari finanziamenti esterni, i quali rappresentano oggi solo una piccolissima parte dei propri introiti. In tale prospettiva l’ISIS si presenta, ad una disincantata analisi della realtà, non molto diverso da una vecchia banda di predoni del deserto, seppur più vasta ed articolata, per la quale la religione ha assunto un ruolo, in certa misura, sostanzialmente pubblicitario e promozionale, oltreché socio-politico.

In un contesto più ampio.
I sommovimenti in atto in Medioriente e la grande partecipazione in corso delle potenze internazionali in seno ai conflitti in essere in quella vasta porzione di mondo, hanno riportato in auge il vecchio strumento politico-militare della guerra per procura. E’ evidente che, in questo contesto, un gruppo armato come l’ISIS abbia facilmente trovato un ambiente assai favorevole per le proprie attività, così come appare altresì chiaro che, in una realtà tribale come quella in esame, lo strumento della guerra per procura risulti particolarmente adatto per essere applicato con successo. A questo punto ci potremmo domandare che cosa abbia spinto l’ISIS ad iniziare una campagna militare in Iraq come quella che sta conducendo contro il governo di Al-Maliki, un’operazione dai risvolti indubbiamente rischiosi e dagli esiti incerti quando, tutto sommato, l’ex gruppo qaedista si era conquistato una posizione di comodo in Siria. C’è chi sostiene che la crisi militare dei ribelli siriani abbia indotto l’ISIS a cercarsi un nuovo “rifugio” in Iraq. Fatto strano, per la verità, visto che le sorti dell’ISIS viaggiano su binari assai differenti e ben più solidi rispetto a quelli dell’opposizione moderata sostenuta dai Paesi del Golfo e dall’Occidente. Sono altrettanto da escludersi le obiezioni di chi sostiene che si tratti di un mero complotto saudita, giustificazioni che non hanno nessun fondamento logico come poc’anzi detto. Ciò che appare altresì sorprendente è che l’ISIS, ufficialmente nemico giurato di Assad, abbia mobilitato le proprie forze in Iraq lasciando parzialmente scoperto il fronte siriano, fornendo al regime di Damasco una valida possibilità per organizzare un poderoso contrattacco contro gli uomini di Al-Baghdadi. Quest’ultimo dato può essere a buon diritto aggiunto alle stranezze che circondano i rapporti tra Assad ed il mondo della jihad internazionale, relazioni che, sotto certi aspetti, ricordano gli approcci “manipolatori” che l’Impero romano d’Oriente intratteneva con le tribù barbare che si presentavano fastidiosamente ai propri confini, invece di recarsi subito a disturbare l’assai più debole vicino occidentale. Possiamo in tal senso provare a formulare un’ipotesi ponendoci la classica domanda del “Cui prodest?” ovvero “A chi giova?”. A chi giova la campagna militare dell’ISIS, volta a destabilizzare l’Iraq e a creare un fantomatico califfato islamico? Naturalmente, a questo punto, entriamo nel campo delle congetture, ciononostante si potrebbe affermare che il primo soggetto a beneficiare da tale situazione sia proprio lo storico nemico di sempre del mondo sunnita, ovvero l’Iran sciita.

Dalla Russia all’Iraq, via Iran.
Ci è noto che la Russia, assieme all’Iran, stia sostenendo da anni, attraverso ingenti quantità di forniture militari, gli sforzi bellici del regime di Assad contro i ribelli siriani, dato che Mosca possiede importanti interessi geostrategici nell’area, tra i quali, la fondamentale base navale di Tartus. Nel frattempo il Cremlino, in ciò che si sta pericolosamente tramutando in una vasta costellazione di conflitti di natura globale, ha dovuto affrontare una nuova minaccia, questa volta praticamente davanti alla porta di casa, ovvero in Ucraina. La strategia russa, in questo caso, non è stata difforme da quanto messo in atto in Siria, ovvero la Russia, invece di entrare direttamente in guerra contro l’Ucraina “ribelle” e subire le conseguenze di un costosissimo isolamento internazionale e della fuga in massa dei clienti “energetici”, spaventati dalle “esuberanze” moscovite e pronti ad abbracciare nuovi fornitori internazionali, ha preferito utilizzare lo strumento della guerra per procura attraverso la creazione di una “milizia filorussa”, appoggiata a sua volta ad uno stato fantoccio formatosi nell’est del Paese, la “Nuova Russia”, in seno ad una fantomatica federazione di entità autonome, come la cosiddetta repubblica popolare di Donetsk. A questo punto la stessa Russia, dato che l’Occidente aveva osato tanto, “invadendo” quello che ritiene da sempre essere il proprio giardino di casa, avrebbe potuto coltivare l’interesse ad escogitare una riposta di pari livello, ovvero aprendo un nuovo fronte nel campo avversario.
L’Iran, a sua volta impegnato nella lotta contro i Sauditi per la supremazia nel Vicino Oriente, naturalmente potrebbe aver avuto tutto l’interesse a partire all’offensiva in un contesto dove, però, la guerra per procura rimanesse lo strumento principale di azione, in quanto nessuno degli attori regionali in gioco ha finora ritenuto opportuna una propria personale discesa nel campo di battaglia, la quale potrebbe generare conseguenze, in primo luogo per gli stessi stati mediorientali, ben peggiori di quelle prodotte dagli attuali conflitti in corso. Parimenti l’Iran, avendo compreso che il momento migliore per risolvere a proprio vantaggio la spinosa questione del programma nucleare nazionale coincide probabilmente con la debole presidenza Obama, potrebbe aver ritenuto indispensabile agire ora, nel corso delle trattative finali in atto fra Teheran e le principali potenze mondiali, al fine di ribaltare la situazione a proprio vantaggio, assumendo in qualche modo un ruolo positivo agli occhi degli Americani, i quali, per quanto primi attori nella vicenda, appaiono fin troppo desiderosi di raggiungere un accordo a tutti i costi e di portare un risultato di qualche tipo in patria, nonché di illudersi di aver creato una ragione in più per disimpegnarsi dalla regione. Come siano andati effettivamente i fatti al momento è difficile stabilirlo e probabilmente a tutt’oggi nessuno in Occidente ne è pienamente a conoscenza, ad ogni modo quello che è noto è che l’ISIS, coadiuvato dalle tribù irachene sunnite, in rotta con il governo sciita di Al-Maliki ed “accompagnato in corso d’opera” da una sorprendente serie di bombardamenti “di incoraggiamento (presumibilmente a sloggiare)” effettuati dal regime di Assad in Siria, dopo aver avuto tutto il tempo di pianificare le proprie mosse dalla base siriana di Raqqa, ha iniziato una strepitosa “anabasi” verso l’interno dell’Iraq, provocando l’immediato sbandamento dell’esercito iracheno, fondamentalmente sciita, e giungendo a minacciare la stessa Baghdad. Tutta l’operazione era stata ovviamente già preparata da mesi, come confermato da fonti curde, nel corso dei quali, l’ISIS ha aperto la strada all’invasione, costituendo alcune teste di ponte nella regione e cementando la sua alleanza con i gruppi sunniti e gli ex-baathisti dell’Iraq. Tuttavia, se l’ISIS, da parte sua, ha saputo abilmente sfruttare il malcontento esistente fra la popolazione sunnita nei confronti del regime di stampo sciita che, dopo la caduta di Saddam, ha pensato “bene” di restituire “pan per focaccia” all’ex “razza padrona”, dal canto loro le forze sciite non sono sembrate del tutto all’oscuro di ciò che stava per compiersi, dato che a Baghdad, negli stessi giorni in cui si compiva l’invasione dell’ISIS, erano già presenti alti ufficiali iraniani, tra i quali il ben noto manovratore della politica mediorientale, nonché “habitué” delle rive del Tigri e dell’Eufrate, il generale Qassem Suleimani, accompagnati da gruppi di forze speciali, i quali non hanno perso tempo ad offrire il completo sostegno iraniano al traballante Al-Maliki, già in attesa di ricevere l’incarico di formare il nuovo governo a seguito dell’ennesima vittoria elettorale, nelle corso delle ultime elezioni politiche, del gruppo sciita già al potere, fatto che indubbiamente mette in luce una tempistica, da parte delle forze “rivoluzionarie” sunnite, certamente non casuale volta a spingere il Paese nel caos più totale e a costringere gli sciiti a sedere al tavolo delle trattative. Ciononostante la “scommessa” messa in campo dalle tribù sunnite irachene è apparsa fin da subito alquanto azzardata. Probabilmente i sunniti iracheni hanno ritenuto di essere in grado di manipolare l’ISIS a proprio vantaggio con il fine di alzare la posta con il governo di Al-Maliki e di potersene successivamente sbarazzare al momento opportuno, tuttavia è molto più verosimile che sia l’ISIS ad avere ora il coltello dalla parte del manico e a tenere in pugno i sunniti iracheni, magari ammorbidendo il risentimento di qualche capo tribù attraverso qualche copiosa elargizione derivata dai saccheggi appena compiuti. In seno a questo scenario complesso, ricco di intrecci e di ramificazioni, la successiva mossa compiuta sul “tavolo verde” della strategia politica mediorientale da parte dell’Iran appare essere ulteriormente connotata da elementi in qualche modo rivelatori di una sorta di disegno politico precedentemente pianificato in separata sede. Con l’ISIS ferma a poche decine di chilometri da Baghdad e apparentemente pronta a sferrare l’attacco finale contro la capitale, Teheran, già pronta, a suo dire, a schierare anima e corpo a difesa della popolazione sciita, accompagnando il tutto con toni propagandistici roboanti e assumendo, di fatto, il controllo delle sorti del governo centrale attraverso la riorganizzazione e l’addestramento delle vecchie milizie sciite già operanti al tempo dell’occupazione americana, ha abilmente tentanto un riavvicinamento con agli Americani attraverso la “modesta” proposta, filtrata per vie intermedie a mezzo della richiesta di aiuto di Al-Maliki a Washington, di mettere da parte le “incomprensioni” del passato e di unire le forze per sconfiggere il comune nemico jihadista e, conseguentemente, al fine di aprire una nuova stagione di rapporti bilaterali fra i due Paesi, all’insegna della lotta contro il terrorismo di matrice sunnita. La “scommessa” politica di Teheran è stata immediatamente compresa da Riyad, la quale ha rapidamente intuito che Teheran, oltreché nutrire l’intenzione di far ricadere tutta la responsabilità relativa alla presente crisi socio-politica del mondo islamico sui Sunniti, stava cercando in tal modo di spezzare la storica alleanza tra la penisola arabica e gli Stati Uniti, in modo da isolare i Paesi del Golfo e di fatto dare inizio ad una nuova egemonia iraniana sul Medioriente. La risposta saudita non si è fatta attendere ed è stata esplicitata tramite l’espressa richiesta di evitare qualunque intervento straniero nel Paese, in quanto la faccenda, secondo i Saud, doveva essere necessariamente risolta in seno al solo popolo iracheno. La dichiarazione saudita ha trovato subito risposta positiva a Londra, la quale, notoriamente assai vicina all’Arabia Saudita, pur rappresentando l’ex-potenza mandataria della regione e nonostante avesse fatto parte della coalizione che guidò la forza di invasione in Iraq nel 2003, è apparsa fin da subito assai restia, anche a fronte dei problemi di bilancio in essere nel settore della difesa, dal farsi trascinare nuovamente dagli ormai spennati “falchi americani” nel pantano politico-militare mesopotamico, sponsorizzato ai tempi dal governo laburista di Tony Blair, le cui vicende, nel corso degli anni, hanno suscitato in Patria un vespaio di polemiche che hanno contribuito a mettere in luce le ombre di un conflitto iniziato male e finito ancora peggio e a generare una non irrilevante opposizione popolare al coinvolgimento della Gran Bretagna in nuovi conflitti internazionali. Inoltre, ciò che è apparso subito evidente è che se gli Americani avessero accettato di bombardare i ribelli sunniti, schierandosi a favore del governo sciita di Al-Maliki, Washington non solo si sarebbe posizionata incontrovertibilmente a fianco della fazione sciita, ma addirittura si sarebbe improvvisamente trovata in un’assai improbabile alleanza con il vecchio nemico iraniano, assieme al quale, per di più, è in corso un’importantissima trattativa “ad opponendum” sulle sorti del assai controverso programma nucleare promosso dal regime degli Ayatollah. In tale frangente il non-interventismo obamiano, come in altre occasioni, non si è fatto attendere e mentre la Casa Bianca tergiversava come sempre sulla risposta da dare all’invasione armata dei terroristi islamici dell’ISIS, progettando freneticamente fantomatiche “linee rosse” da non oltrepassare da distendere su tutto il deserto arabico, sorprendentemente dal fronte interventista dei cosiddetti “falchi americani” è emerso chi, pur di riportare gli Stati Uniti dal campo dell’inazione e del declino a quello dell’azione, era pronto a scendere a patti con gli Iraniani proprio sul tema della cooperazione militare nella lotta contro l’ISIS. Fortunatamente dai ranghi dell’establishment americano è emersa una delle poche voci della ragione presenti a Washington negli ultimi anni, ovvero quella del generale David Petraeus, il quale, forte dell’esperienza maturata sul campo nelle ultime guerre “made in USA”, ha fondamentalmente suggerito che, prima di un qualunque intervento occidentale in Iraq, fosse assolutamente necessaria la creazione di un governo di unità nazionale, atto a far si che il conflitto non si tramutasse in una mera guerra settaria nella quale l’Occidente si trovasse a spalleggiare una delle due parti, nello specifico quella filo-iraniana. La richiesta di un governo di unità nazionale rappresentava l’elemento che effettivamente caratterizzava già da tempo il dibattito internazionale sulla crisi irachena e costituiva la posizione che anche l’Arabia Saudita, come altri attori europei, ha sempre sostenuto nel corso dell’evoluzione del conflitto in Iraq. In tale prospettiva l’attendismo obamiano, per una volta, non è stato del tutto inutile ed ha casualmente evitato che alla presente catastrofe si aggiungesse un’ulteriore catastrofe politico-militare, anche se la linea di azione presidenziale, invece di essere primariamente tesa a costringere Al-Maliki alla “resa”, si è tramutata quasi esclusivamente nel proponimento di inviare subito solo alcune centinaia di consiglieri militari che, nei fatti, stanno già operando sullo stesso terreno dove già si trovano le forze iraniane, anche se non in via ufficiale. La crisi della leadership americana in Iraq si è resa in particolare evidente nel momento in cui la Russia di Putin, approfittando dell’assenza di un sostanziale aiuto militare americano e della contestuale urgente richiesta di soccorso di Al-Maliki, è intervenuta prontamente a portare man forte all’amico dell’alleato iraniano, di fatto confermando una politica estera che in Medioriente trova la sua espressione attiva nell’Iran e nei suoi alleati. Da questo punto di vista, se quanto accaduto in Medioriente, trae effettivamente origine da un disegno preordinato, appare allora possibile affermare che l’Iran abbia raggiunto una vittoria a metà, in quanto da un lato, da parte americana, sono state cedute a Teheran prerogative politico-militari un tempo saldamente in mano agli Stati Uniti, i quali hanno dimostrato la propria sostanziale volontà di disimpegno anche laddove avrebbero avuto il dovere morale di intervenire, come in Iraq, dall’altro, però, l’Iran non è riuscito (almeno per ora…) a manipolare la politica estera americana in modo tale da ribaltare la vecchia alleanza occidentale con il mondo sunnita a proprio favore, e, di conseguenza, a favore delle ambizioni moscovite. Da questo punto di vista, può essere forse un caso che Hamas abbia recentemente iniziato a bersagliare Israele, proprio in concomitanza con gli ultimi sviluppi in corso nello scenario siro-iracheno? Hamas, ufficialmente divorziata da Iran ed Hezbollah dopo lo scoppio della crisi siriana, in realtà pare che non abbia mai realmente troncato i propri rapporti con questi soggetti internazionali: lo dimostrerebbero la serie di carichi di armi e missili che l’Iran, secondo quanto riferiscono i servizi di sicurezza israeliani, ha continuato ad inviare alla stessa Hamas via mare, tramite il Sudan, almeno fino al marzo scorso. In tal senso l’attacco palestinese contro Israele potrebbe inserirsi in un contesto, previdentemente appositamente “preriscaldato”, teso all’apertura di un ulteriore fronte di crisi a favore del partito iraniano, in una regione sempre più sull’orlo della guerra totale, nella quale colpire Israele significa, il più delle volte, porre un ricatto nei confronti di tutto l’Occidente. In particolare ciò accade nel momento in cui Hamas, già scossa da divisioni interne, sente sempre più cogente la necessità di ravvivare vecchie alleanze, soprattutto dopo la conclusione della breve parentesi di governo della Fratellanza Musulmana in Egitto, Paese ora nuovamente in mano all’esercito e ai suoi sostenitori del Golfo Persico. Occorre altresì registrare che l’attuale capitolo della crisi israelo-palestinese si pone al termine dell’ennesimo fallimentare tentativo di mediazione americana promossa dal Segretario di Stato John Kerry, il quale, pur dimostrando tutta la propria buona volontà personale alle parti, è stato letteralmente trattato a pesci in faccia sia dagli Israeliani che dai Palestinesi, non avendo avuto in mano fondamentalmente nessuno strumento concreto che potesse in qualche modo portare le due parti a sedere attorno ad un serio tavolo di confronto.

Conclusione.
Al di là del fantomatico progetto dell’ISIS di instaurare un improbabile califfato islamico universale, cosa molto più facile a dirsi che a farsi, in particolare se pensiamo che tale progetto è altresì condiviso da altri gruppi fondamentalisti, come la stessa Al Qaeda, i quali non desiderano certamente concorrenti su ciò che ritengono essere una propria esclusiva prerogativa, l’idea del gruppo dirigente, che coadiuva il famigerato Al-Baghdadi, è molto più verosimilmente quella di promuovere la creazione di uno stato-corridoio che metta in comunicazione il bacino politico-militare iraniano e centro-asiatico con il mar Mediterraneo. La creazione di una sorta di “stato di passaggio” in una zona fondamentale dal punto di vista geopolitico, rappresenterebbe certamente l’opportunità per questi nuovi satrapi mediorientali di entrare da protagonisti nei più lucrosi affari della regione e di instaurare “dazi”, nel senso più predatorio del termine, per tutto ciò che si intenda far transitare attraverso il nuovo califfato islamico. Una situazione tutto sommato abbastanza comoda per l’Iran il quale già veicola gli aiuti per il regime di Damasco attraverso una porzione di territorio che in parte coinvolge proprio l’area controllata dallo “Stato Islamico”, il quale, per di più, continuerà comunque a necessitare del sostegno dei Paesi vicini per procedere alla vendita dei prodotti petroliferi estratti sul proprio territorio, fatto che sembra in effetti stia già avvenendo, via Kurdistan, verso la Turchia, Paese di transito dei gruppi jihadisti con, all’attivo, un vecchio “flirt” con Teheran che forse stenta a dimenticare a seconda di come giri il vento, e, guarda caso, verso l’Iran stesso.
Lo scenario mediorientale rischia pertanto di mutare radicalmente a fronte della dirompente conflagrazione della geografia statuale della regione, dettata, ab ovo, dall’accordo Sykes–Picot, e ora rimessa in discussione dallo jihadismo tribale transnazionale che è riemerso prepotentemente dalla crisi e dal crollo di alcuni regimi mediorientali occidentalizzanti. Purtroppo, se tale antica architettura politica, figlia dell’Europa dell’epoca coloniale, non verrà in qualche modo difesa dalle potenze occidentali, il caos si spargerà definitivamente su buona parte dell’area ed il nuovo ordine che ne sorgerà verrà organizzato in funzione di coloro che si imporranno come nuove potenze dominanti nella regione. E’ ovvio che, mentre gli Stati Uniti possono comunque permettersi di vivere totalmente isolati, anche se, evidentemente, in parziale miseria, protetti fra due oceani, l’Europa, al contrario, sarà la prima a pagare le conseguenze, devastanti, di un possibile mutamento di natura epocale nel Vicino Oriente. Se paragoniamo quanto sta accadendo in Medioriente con la situazione in essere nella vicina Ucraina, possiamo ben renderci conto del futuro politico-diplomatico che ci attende. Se gli Stati Uniti, da un lato, si sono riservati la facoltà di fare la voce grossa e di minacciare sanzioni sempre più devastanti a Putin, dall’altro, a parte qualche visita istituzionale di qualche politico più o meno impegnato ed alcuni sporadici aiuti di contorno, sia militari che finanziari, inseriti in seno ad una mobilitazione Nato veramente sotto tono, poco gli USA hanno fatto per supportare fattivamente un paese come l’Ucraina che ancora viene messo in scacco, nonostante alcune prime vittorie sul campo, da una parvenza di esercito rivoluzionario che ormai è costituito solo da una banda di mercenari inviati e teleguidati da Santa Madre Russia, nonché capitanati sul campo da agenti dei servizi segreti moscoviti. Al contrario il “conto” diplomatico è rimasto saldamente in mano a Paesi come la Germania e la Francia, i quali si devono relazionare con un “vicino” che, a parole, effettua affermazioni che nei fatti si trasformano, più e più volte, nel loro esatto contrario, tramutando il tutto in una sorta di estenuante partita durante la quale l’avversario abilmente muta in continuazione gioco e tattica non appena la tensione supera una certa soglia critica. Allo stesso modo rimangono tutt’ora lettera morta gli aiuti più volte promessi dal presidente Obama ai ribelli siriani, per quanto questi ora riconosca, sempre a parole, che l’opposizione siriana moderata possa avere un ruolo essenziale nella lotta contro i fondamentalisti come l’ISIS. In un tale scenario, caratterizzato dal disimpegno geopolitico americano, i soggetti internazionali che prima frenavano il proprio avventurismo politico-militare per timore delle conseguenze di un intervento pacificatore USA, ora si sentono fondamentalmente liberi di agire indisturbati, ben sapendo che nessuno in Occidente, allo stato attuale, mostra particolare propensione all’intervento nella nuova polveriera mediorientale. Addirittura la signora Merkel, nuovo “deus ex machina” della politica europea nonché stabilmente insediata nell’assai più quieta Berlino, si sente oggi sufficientemente confidente di poter cacciare via a suo piacimento dal suolo tedesco personaggi di spicco del servizio segreto americano, il quale, ultimo baluardo rimasto della vecchia politica americana, probabilmente, fra le altre cose, non vede troppo di buon occhio le più che evidenti “corrispondenze di amorosi sensi” esistenti tra Mosca e la Germania, realtà effettuali di natura economica che esistono e resistono nonostante lo scontro politico in atto. Dal momento che in Iraq la risposta degli Stati Uniti è stata nuovamente fiacca e contraddittoria, è chiaro che per le potenze limitrofe, quelle che da anni ed anni attendono l’opportunità di farsi nuovamente largo nella regione, appare evidente come l’attuale situazione rappresenti un’occasione irrinunciabile per promuovere le proprie ambizioni geopolitiche. Da questo punto di vista Russia ed Iran sono collocate in “pole position” per la nuova “corsa all’oro” e, certamente, la Cina non farà mancare il proprio contributo determinante, come già accaduto in passato, qualora la situazione dovesse volgere in maniera inequivocabile a loro favore. In realtà il vero rischio, posto che una qualche reazione occidentale si verificherà presto o tardi, è che il Medioriente si tramuti in una nuova Sarajevo ed, in tal senso, appare veramente stupefacente come il centenario dello scoppio della prima guerra mondiale sia a tal punto permeato da conflitti sempre più fuori controllo, da far presagire che il vento della guerra possa soffiare nuovamente vigoroso in un prossimo futuro. Se Francia e Regno Unito ritenevano che bastasse nuovamente denunciare, a mezzo stampa, l’utilizzo di armi chimiche da parte del regime di Assad, nonostante l’accordo, mediato tra Russia ed USA, per la consegna del relativo arsenale in mano al regime di Damasco, per indurre un ripensamento nella strategia adottata dalla Casa Bianca, questi evidentemente non hanno accuratamente valutato il fatto che il governo americano ha più volte ribadito la sua volontà di rimanere estraneo a conflitti che non dovessero rappresentare una diretta minaccia per la sicurezza nazionale o per quella degli alleati Nato. Allo stesso modo i governi di Parigi e di Londra, pur sposando, nelle sue linee essenziali, l’assai conveniente strategia saudita, la quale non implica necessariamente un loro coinvolgimento militare diretto e che, nel contempo, garantisce lucrosi contratti di fornitura bellica, pagati da Riyad ed alleati peninsulari, forse non hanno altresì ben compreso che il governo dei Saud non ha finora dimostrato di avere pienamente il polso della situazione rispetto a ciò che accade sul campo di battaglia, altrimenti, per esempio, difficilmente le tribù sunnite irachene si sarebbero lanciate in un più che azzardato accordo con l’ISIS, i cui esiti rischiano di danneggiare la loro posizione più di quanto non fosse già compromessa in precedenza. Per quanto rimangano oscuri i destini delle componenti più essenziali della politica estera americana, ovvero se questi siano più o meno legati alla sola presidenza Obama o correlati a fattori più trascendenti, le azioni che, allo stato attuale, possiamo auspicare vengano intraprese per tentare di riportare ordine in questo caos generalizzato, risiedono nella volontà dell’Europa, Francia e Gran Bretagna in primis ma anche Germania, di esprimere una posizione politica forte e di abbandonare quella “noncuranza” centroeuropea che a volte sembra contraddistinguere certe posizioni politiche assolutamente malsane, quasi volte a suggerire che, per risolvere i conflitti armati, basti mettere la testa sotto la sabbia di fronte a problemi che, in realtà, nessun altro, oltre Atlantico, ha ormai più “voglia” di risolvere. Oltre a ciò, l’idea che serpeggia in seno a numerosi ambienti politico-economici internazionali, tesa a considerare il sostegno ad un qualunque accordo sul programma nucleare di Teheran, come un buon viatico per poter contare su una corsia preferenziale di ingresso in un mercato iraniano possibilmente presto di nuovo aperto al mondo, certamente non rappresenta un atteggiamento responsabile nei confronti di una crisi che non vede in alcun modo l’Iran posto dalla parte delle vittime inermi. Parimenti tale prospettiva rischia di indurre alcuni governi ad ammorbidire la propria posizione di risolutezza nei confronti del regime degli Ayatollah, proprio per non dover rischiare di rimanere eventualmente “a piedi” qualora, volenti o nolenti, un accordo con l’Iran sopraggiunga comunque, indipendentemente dalle eventuali obiezioni mosse. Quindi l’auspicio non può che essere espresso nella direzione di una comune determinazione europea a farsi carico di una situazione che rischia seriamente di sconvolgere, con il tempo, non solo il Medioriente ma aree sempre più vaste del mondo; auspicio che non può che andare di pari passo con la speranza che la guida politica del più potente arsenale militare mondiale, invece di promuovere a tutti i costi un sempre più zoppicante accordo sul programma nucleare iraniano, contornato da ogni genere di intrigo e da eventuali esiti sempre più inquietanti e squalificanti, senta perlomeno il dovere di contribuire in maniera concreta e realistica alla risoluzione di una situazione di conflitto in continua espansione che in parte è stata causata proprio dalla missione militare americana in Iraq e dal successivo mancato intervento nella guerra civile siriana, la quale ha finora mietuto migliaia di morti innocenti e generato milioni di rifugiati, disseminati in una miriade di campi profughi ormai sull’orlo del collasso più totale.