L’est e l’ovest della politica. Dibattito tra Raffaele De Mucci e Mauro Barisione

Tra stelle polari ideologiche e costellazioni valoriali.

a cura di Gianluca Vivacqua

Una cosa si può dire con certezza: se non ci sono più le grandi ideologie di massa ma esistono ancora la destra e la sinistra è perché queste ultime sono pre-ideologiche e quindi, necessariamente, post-ideologiche. Grandi ionizzazioni della politica, secondo una dicotomia che mutueremmo dalla chimica si potrebbe parlare di un corno progressista caricato positivamente e di un corno conservatore e reazionario caricat invece negativamente, destra e sinistra in realtà hanno dentro di sé un po’ dell’una e un po’ dell’altra.
Con questo pezzo facciamo un omaggio ad Alberto Arbasino confezionandolo come se fosse una puntata di Match, il programma in cui due intellettuali si sfidavano tra loro a suon di opinioni contrapposte su un dato argomento. A dire la verità tenzonavano anche col pubblico in studio. La nostra arena, per forza di cose, è assai più virtuale: e anche i nostri due gentili e prestigiosi duellanti, il professor Raffaele De Mucci, politologo della Luiss, e il professor Mauro Barisione, ordinario di Sociologia politica dell’Università degli Studi di Milano, si “sfidano” sul tema dell’identità odierna della destra e della sinistra mantenendo quella “distanza sociale” (e spaziale) che lo stesso Arbasino, di questi tempi, avrebbe dovuto far applicare.

– Professori, dopo il tramonto delle grandi ideologie del ‘900 come sono cambiati i concetti di destra e sinistra?

De Mucci. “Era il 1999, quando ormai la polvere del crollo del muro di Berlino aveva prodotto i suoi cambiamenti epocali nella storia dell’Occidente, che partecipai come coautore alla scrittura di un libro curato dai colleghi Antiseri e Infantino, il cui titolo costituisce già una specie di epitaffio per la questione sollevata: “Destra e sinistra. Due parole ormai inutili” (Rubettino editore).
Le parole, com’è noto, hanno in origine un mero significato di toponomastica parlamentare, quasi casuale. Secondo la vulgata storica più ricorrente risalirebbero al posizionamento assunto dai rappresentanti del popolo negli Stati Generali del 1789 in Francia allorché, trattandosi di discutere sulla libertà religiosa nell’ambito della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino, i difensori della religione e della monarchia – in altri termini difensori dello status quo – andarono a rifugiarsi sul lato destro dello scranno presidenziale in quanto trovano da quella parte più spazio per difendersi dalle urla e dalle minacce della fazione laica dei “rivoltosi”. Le parole diventano concetti politici quando si consolida il posizionamento dei membri dell’Assemblea legislativa francese in base agli orientamenti e ai programmi politici di monarchici (i Foglianti), a destra, e i rivoluzionari (Giacobini) a sinistra, mentre nel mezzo c’era la stragrande maggioranza dell’Assemblea, identificata evocativamente come Palude
In realtà, termini (e concetti) di destra e sinistra risalgono a molto tempo prima in Inghilterra, essendo di fatto coevi alla storia del parlamento stesso. Whigs e Tory, liberali e conservatori che davano vita già alle due formazioni partitiche tipiche del bipolarismo anglosassone, si erano trovati collocati, rispettivamente, alla sinistra e alla destra rispetto allo scranno dello speaker, noi diremmo del Presidente della Camera.
D’altra parte, a volere essere esaustivi in questa ricerca, bisognerebbe ricorrere a indagini semantico-glottologiche per rintracciare nella tradizione biblica ebraica e cristiana la coppia destra/sinistra che ha sempre conservato la connotazione oppositiva valore/disvalore (=bontà/malvagità). Nella trasposizione politico-ideologica, la logica supremazia – persino spesso numerica, nel conteggio dei consensi – che le opzioni di conservazione hanno sempre rivestito su quelle di innovazione hanno fatto in modo di congelare in destra e sinistra le rispettive parti in campo.
Nel glossario di incertezze in cui versano oggi queste parole e concetti ormai destituiti di referenti ideologici e politici viene quasi spontaneo il ricorso alla narrazione etnometodologica, alla antropologia degli sili di vita, per trovarne ancora un senso. E in questa prospettiva riemerge con irrispettosa prepotenza la ballata scritta e cantata da Giorgio Gaber su “Cos’è di destra, cos’è di sinistra”: fare il bagno nella vasca è di destra, fare la doccia di sinistra… una bella minestrina è di destra, il minestrone sempre di sinistra… L’ideologia, l’ideologia, malgrado tutto credo ancora che ci sia… E conclude: “Tutti noi ce la prendiamo con la storia, ma io dico che la colpa è nostra. È evidente che la gente è poco seria quando parla di sinistra o destra”.
Parole profetiche, del 1996. Lo stesso anno in cui usciva il celeberrimo pamphlet di Norberto Bobbio, Destra e sinistra (Donzelli). Bobbio sosteneva la duratura validità di questo dualismo sul criterio discriminante dell’idea di eguaglianza, praticamente sacrificato a destra in nome della libertà, declinato in molti modi a sinistra ma comunque indirizzato alla realizzazione di un principio di giustizia sociale (per quanto questo rimanga necessariamente irrealizzato). Il che – bisogna ammettere – ha importanti conseguenze sul piano della democrazia contemporanea e delle sue diverse forme di sistema. Per un filosofo è facile maneggiare concetti ad alto grado di astrazione come libertà e uguaglianza. Ma provatevi a calarli nel grado di connotazione empirica e su questo piano definirli. Cos’è libertà? Quella che esprime le proprie facoltà di realizzazione o quella delimitata normativamente dalle aspettative di sicurezza altrui? C’è un ordine gerarchico nelle libertà (politica, economica, di pensiero, ecc.) o si trovano tutte sullo stesso piano? E l’eguaglianza? E’ quella universalistica che dà parti uguali a tutti oppure quella distributiva per cui parti uguali si danno agli uguali e diseguali ai disuguali? O ancora redistributiva, per dare parti diseguali a differenze rilevanti (per meriti o privazioni)?
Ecco perché, nell’impossibilità di rispondere a queste domande in modo convincente e oggettivo, o nel rischio di rispondervi in modo consono a un qualche totalitarismo, ci ricolleghiamo al testo citato all’inizio per ricordare con Fredrich von Hayek che la vera contrapposizione che ancora vale in politica è quella fra conservatori- di destra, di centro e di sinistra – e liberali, favorevoli al cambiamento implicito nella competizione di mercato (Perché non sono un conservatore, pp. 9-10)”
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Barisione. “Destra e sinistra incorporano continuamente significati nuovi, così come hanno significati diversi a seconda dell’area geoculturale, della generazione, dello status socioeconomico di chi li utilizza. Sono simboli che semplificano realtà complesse. In termini molto generali, dopo il 1989 e la scomparsa del sistema internazionale bipolare, c’è stata una fase di convergenza ideologica fra destra e sinistra per quanto riguarda la dimensione economica: entrambi favorevoli al libero mercato e a una riduzione del ruolo dello Stato. Questo rifletteva non solo il fallimento storico del prototipo iperstatalista sovietico, ma anche un sistema internazionale divenuto ormai (benché provvisoriamente) unipolare, con l’egemonia del modello – liberaldemocratico e liberista – statunitense. Concordi nel ridimensionare il Welfare State europeo per favorire la competizione globale, destra e sinistra a trazione neoliberista trovavano un nuovo terreno di divisione nella dimensione culturale. Abbandonando la questione sociale o di classe, la sinistra si è concentrata sui temi ‘post-materialisti’ relativi al riconoscimento dei diritti delle categorie discriminate (parità di genere, omosessualità, minoranze, immigrati). È questa la svolta che chiamerei ‘liberal-progressista’ della sinistra moderna, cui si contrapponeva una destra liberista e conservatrice (benché spesso moderata e non così ostile a concessioni modernizzatrici) sul piano dei valori morali. Lo scontro culturale si è radicalizzato dal 2001 intorno alla questione identitaria – occidentale, nazionale e cristiana – che la destra ha sposato in reazione anti-islamista radicale (da Al-Qaeda all’Isis, passando per la Guerra in Iraq). Ma è importante capire che le dimensioni della politica sono molteplici (stato-mercato, libertarismo-autoritarismo, populismo-pluralismo, apertura-chiusura, materialismo-postmaterialismo, ecc.) e che il solo asse-sinistra destra non può inglobarle tutte in modo coerente”.

– In generale oggi il mondo va più a destra o più a sinistra, secondo il vostro parere?

Raffaele De Mucci.
De Mucci. “Seguendo il filo del ragionamento precedente, vedo una prevalenza di governi conservatori e una grande assenza di sistemi liberali, in Europa come negli Usa. Per usare le consuete categorie: più destra che sinistra”.

Barisione. “Nell’ultimo decennio il mondo, specie occidentale, si è radicalizzato ideologicamente, tanto a destra quanto a sinistra. È come se, dopo la convergenza liberale degli anni 1990, destra conservatrice e sinistra progressista avessero recuperato ciascuna la proprie “stelle polari” ideologiche originarie: ordine (o difesa di un certo ordine politico, sociale e morale) e uguaglianza (o riduzione delle disuguaglianze socio-economiche). Questo ha reso nuovamente visibile la terzietà ideologica della posizione liberale e liberista, da cui sia la destra (da Trump a Marine le Pen) sia la sinistra (con le spinte corbyniste e sandersiane, sconfitte elettoralmente ma tutt’altro che scomparse) si sono smarcati. Paradossalmente, tramontate le ideologie del ‘900 è riemersa una tripartizione ideologica che ricorda quasi la struttura ottocentesca: conservatori (pre-liberali), socialisti/progressisti (ugualitari) e liberali (da Macron, fenomeno contingente di liberalismo di massa, a Calenda e, in parte, Renzi in Italia). Questo si nota anche nel Parlamento europeo, con i vasi comunicanti tra i gruppi popolari, conservatori e nazionalisti a destra, i socialisti europei ora maggiormente allineati alla sinistra, e con il gruppo liberaldemocratico in mezzo. In generale, è probabilmente più utile ragionare in termini di queste tre grandi matrici ideologiche moderne (conservatorismo, liberalismo, socialismo/progressismo) e delle loro contaminazioni reciproche, alternate a fasi di radicalizzazione, che non semplicemente di destra e sinistra. Anche il ritorno del multipolarismo nel sistema internazionale ha favorito una ristrutturazione ideologica “à la carte”, con ogni nazione più libera di sviluppare combinazioni ideologiche relativamente autonome, meno dipendenti da pressioni sistemiche esterne. Quanto all’oggi, il ritorno dello Stato e della spesa pubblica causato dalla pandemia sembra inaugurare una fase di politiche più egualitarie. Questo è ciò che accade tipicamente dopo situazioni di catastrofe. Bisognerà vedere se, passata questa fase, gli abnormi debiti pubblici statali non saranno ripagati con una nuova politica (iper-liberale) di austerità, come dopo la recessione del 2008”.

– Ma quante destre ci sono, oggi, nel mondo? E come si possono suddividere su base geografica? Ad esempio, c’è una destra sudamericana che ha caratteri propri rispetto alla destra europea?

De Mucci. “C’è una destra “sovranista” – in giro per l’Europa – che non è se non la riedizione delle antiche “anime” nazionaliste con l’aggiunta di ideologia populista, con tutti gli equivoci del concetto.
E c’è una destra che il populismo l’ha praticamente inventato fra i militari dell’America Latina e in tutti i regimi ibridi o autoritari dei continenti asiatico e africano. Per non parlare dei regimi di Welfare accentuato. Come Hayek, al posto di destra leggo conservatore, e dovunque c’è statalismo, c’è anche conservazione”
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Barisione. “Destra e sinistra, lo dicevamo, si combinano variamente con linee di conflitto che possono anche riflettere specificità nazionali o di macro-aree geo-culturali. Nel caso sudamericano, un aspetto importante è il mancato radicamento di una cultura politica liberale, come si evince dalla duplice tendenza autoritaria e democratico-populista della politica dell’ultimo secolo in America del Sud. Le destre sudamericane hanno tendenzialmente assorbito la componente liberista, a causa dell’influenza geopolitica esercitata dagli Stati Uniti (fin dal caso eclatante del ruolo giocato da economisti come Milton Friedman e dai cosiddetti Chicago boys nella politica economica del Cile di Pinochet), molto più di quella liberale. Certo, esiste anche una destra liberal-conservatrice di ispirazione nordamericana, come ad esempio quella dell’ex-presidente Álvaro Uribe in Colombia, così come un centro liberale, come quello del presidente uscente Mauricio Macri in Argentina. Ma il caso di Bolsonaro in Brasile, leader di una destra ultra-conservatrice non solo ancora più radicale di Trump, ma impiantata in un sistema politico molto meno solidamente liberale degli USA, ci ricorda come l’offerta politica populista-autoritaria possa sempre riemergere, sfruttando i passaggi storici propizi, nei mercati elettorali sudamericani. Questo vale, mutatis mutandis, anche per la sinistra sudamericana, come nel caso paradigmatico di Hugo Chávez in Venezuela. Quanto alla destra europea, accanto ai liberal-conservatori di cui l’olandese Mark Rutte è rimasto uno degli ultimi esemplari al governo, si è affermata negli ultimi anni una destra, cosiddetta ‘sovranista’, con un programma nazionalista anche in tema di Welfare: difesa dell’intervento statale e della protezione sociale (ma non per gli immigrati). Si tratta di un neo-conservatorismo radicale e statalista che riecheggia non solo una certa matrice ideologica autenticamente conservatrice (si pensi al conservatorismo europeo, assistenzialista e pre-liberista, della seconda metà dell’800, da Bismark a Disraeli), ma talvolta anche quella nazional-sociale che caratterizzò, fra gli altri, i regimi tedesco e italiano tra le due guerre. I suoi principi-guida: ordine (o restaurazione di un ordine nazionale), ma anche – se non ‘uguaglianza’ – protezione economica e sociale dalle incognite del libero mercato”.

– Quante sono le sinistre, invece?

De Mucci. “Per le trasformazioni della sinistra, mi viene in mente la “globalizzazione”. Stiamo tutti qui a stracciarci le vesti per Trump che cancella gli accordi di commercio internazionale e per la Gran Bretagna che esce dalla Ue: fatta salva qualche sacca di resistenza estimatrice di Corbyn e di Fassina, il fronte progressista sta dalla parte della globalizzazione. E pensare che c’è stato un tempo in cui “no global” era praticamente sinonimo di sinistra: alcune delle stesse persone che all’inizio del nuovo millennio avevano manifestato contro i trattati di libero scambio, oggi, in età più matura, si sono scoperte sostenitrici dei confini aperti. O forse la globalizzazione comincia a piacere alla sinistra proprio perché sta perdendo?”.

Mauro Barisione.
Barisione. “Anche qui, dipende da come si traduce storicamente il perseguimento della “stella polare” ideologica dell’uguaglianza, da come questa si combina con il principio liberale della libertà (culturale ed economica) e con il principio ‘metapolitico’ delle libertà costituzionali. Fra le tendenze principali: una sinistra radicale (i radical americani, che oggi si dicono ‘socialisti’, e parte della sinistra europea) che antepone l’obiettivo social-egualitario, anche attraverso una critica del capitalismo, coniugata a un orientamento libertario; solitamente a vocazione minoritaria, è cresciuta di recente, benché uscita sconfitta, con la campagna elettorale del Labour britannico e quella per le primarie democratiche americane (Sanders). C’è poi una sinistra populista nello stile comunicativo (da Jean-Luc Mélenchon in Francia all’ala sinistra del M5S in Italia) o nell’anti-liberalismo istituzionale (Nicolás Maduro in Venezuela): entrambe hanno la capacità di parlare alle classi popolari ma falliscono nell’obiettivo di creare una vasta coalizione sociale con le classi medie; inoltre, nel contesto europeo, l’attacco alle istituzioni della democrazia rappresentativa è un terreno nel quale prevale la destra populista. Infine, c’è soprattutto la sinistra liberal-progressista (quella divenuta egemonica in Occidente dall’elezione di Barack Obama alla leadership del canadese Justin Trudeau), ambientalista, che interpreta l’idea di uguaglianza non tanto in senso economico, quanto sul piano dei diritti individuali e delle pari opportunità (in un‘accezione quindi più liberale che socialista). È il modello che ha permesso al centro-sinistra di diventare elettoralmente vincente nei grandi centri urbani dell’Occidente (San Francisco, New York, Londra, Parigi, ma si pensi anche ai centri delle grandi città italiane ormai diventati bastioni del PD), ma che gli è spesso costato il consenso nei quartieri a basso reddito, nelle aree periferiche e nelle zone in piena de-industrializzazione. È quella che Thomas Piketty ha definito la sinistra “bramina” delle classi colte e sempre più scollegate dai ceti popolari. Certo, questa sinistra non è stata una creazione dei suoi leader, ma l’esito di lunghe trasformazioni strutturali (dall’economia alla demografia) che hanno interessato le società occidentali fin dagli anni ’60”.

– Quali i principali leader della destra e della sinistra nel mondo di oggi?

De Mucci. “Per la cosiddetta destra, non avrei esitazioni a citare Putin (Trump non lo prendo neanche in considerazione come leader politico, lo lascio fare agli americani). Per la sinistra, nel senso che abbiamo detto (e corretto), non mi viene in mente alcuna figura di “liberale” come la intendo io”.

Barisione. “In generale i leader riescono a produrre consenso investendo su divisioni politiche che intensificano divisioni sociali già esistenti. Donald Trump, ad esempio, ha saputo alimentare la domanda di sicurezza economica ed esistenziale di uomini bianchi, relativamente anziani, religiosi, appartenenti agli strati popolari e alle aree deindustrializzate del Midwest, oltre che agli Stati tradizionalmente conservatori (come Louisiana o Missisippi). Estendendo la mobilitazione già iniziata dal movimento del Tea Party negli anni precedenti, Trump è riuscito a ridefinire l’identità della destra repubblicana americana saldando istanze anti-gender, etnico-culturali ‘nativiste’, religiose (dal creazionismo all’anti-islamismo) ed economico-sociali (il discorso anti-globalizzazione e contro le élites intellettuali, economiche e mediatiche ‘globaliste‘). Ma questo tipo di operazione elettorale può funzionare quando l’offerta politica combacia con le aspettative generate dal contesto, specie in tempi di crisi e di insicurezza. È, non a caso, l’operazione che conduce da anni Matteo Salvini, innestando la sua battaglia anti-immigrazione sul mix di perdurante stagnazione economica e di proclamate crisi o emergenze migratorie. Questo ci ricorda che il leader deve essere un abile imprenditore del consenso, ma che si limita per lo più a capire, interpretare e attivare una domanda che riflette a sua volta le condizioni storiche prevalenti. Se le diseguaglianze crescono, ad esempio, c’è più spazio per un’offerta egualitaria ‘di sinistra’ o per un’offerta di destra improntata a un discorso d’ordine e di rassicurazione simbolica. In tempi di maggiore prosperità, al contrario, le condizioni sono più favorevoli all’affermarsi di un’offerta liberal-progressista e postmaterialista. Un leader debole non è in grado di capitalizzare un’offerta pur congruente con le caratteristiche del ciclo storico (questa è in parte la chiave delle sconfitte di Bernie Sanders e Jeremy Corbyn), ma un leader popolare e comunicativo difficilmente vince con una proposta inadeguata alla domanda fondamentale che emerge dalla società in una data congiuntura. Proprio il nuovo contesto determinato dalla pandemia, che ha messo per ora ai margini la questione migratoria, è la causa fondamentale del forte calo di consensi alla Lega di Salvini. La vera domanda che dovremo porci sarà dunque: quali leader (e quali partiti) sapranno proporre negli anni a venire il messaggio più adatto al nuovo contesto, di cui in parte, ma solo in parte, potranno contribuire a definire la percezione pubblica?.