Libia. Haftar attacca l’Isis a Sirte

di Enrico Oliari –

Haftar khalifaSono in corso nell’area di Sirte, in Libia, violenti combattimenti da parte dell’esercito di “Tobruk” e delle milizie della tribù di Misurata contro l’Isis: da quanto si è appreso, le operazione vedono il tentativo di realizzare una manovra a tenaglia per prendere la città, ed i jihadisti hanno ordinato agli abitanti dei villaggi che li sostengono di lasciare le case.
A guidare l’offensiva è il generale Khalifa Haftar, il quale da giorni minaccia l’azione contro l’Isis; lo scorso 25 aprile è giunta, nonostante l’embargo in corso, a Tobruk una nave attraverso l’asse emitarino-egiziano carica 1.050 veicoli militari, tra cui mezzi blindati e soprattutto pick-up Toyota, sopra i quali sono state montate le armi: era stato lo stesso Haftar a dichiarare che sarebbero servite per combattere l’Isis e riprendere Sirte.
Tobruk non ha ancora aderito al governo di unità nazionale di Fayez al-Serraj che si è insediato di recente a Tripoli, ma con tutta probabilità l’eventuale vittoria sull’Isis servirà ad Haftar per avere un maggiore peso nelle trattative.
Prima dell’arrivo nella capitale di al-Serraj, la parte “di Tripoli” aveva insistito sull’esclusione di Haftar da un eventuale governo di unità nazionale, ma di recente il ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni e gli Usa hanno ravvisato la necessità che il generale abbia un ruolo nel governo.
La figura di Haftar, che guida i militari e i miliziani di alcune tribù di quello che fino a poco fa era il governo riconosciuto “di Tobruk”, è assai controversa e proprio per questo motivo osteggiata da diverse tribù: i detrattori del generale lo considerano al soldo di Washington, dal momento che nel 1987 venne fatto prigioniero dall’esercito ciadiano in occasione della “Guerra delle Toyota”, per poi essere prelevato dalla Cia e portato negli Usa, dove vi è rimasto fino al 2011. In quell’anno ricomparve in Libia per comandare la piazza di Bengasi nell’insurrezione che ha portato alla deposizione di Muammar Gheddafi.