Luca Riccardi, ‘L’Italia repubblicana, centrista anche all’estero’

'Fedele alla Nato, terzista nel Mediterraneo, ma in passato più volte protagonista in Europa'.

a cura di Gianluca Vivacqua –

Se consideriamo la storia dell’Italia unita dal punto di vista della politica estera, osserviamo che nei suoi primi ottant’anni di vita (dal 1861 alla fine della Seconda Guerra mondiale) lo Stato partorito dall’esaltante stagione risorgimentale, anche grazie a due fondamentali levatrici, la Francia alleata militare e la Gran Bretagna regista sullo sfondo, ha acquisito e mantenuto un suo spessore sulla scena internazionale disimpegnandosi all’ombra di triplici alleanze, triplici intese, assi d’acciaio e patti tripartiti. Nel Secondo dopoguerra, abbandonata la monarchia e istituita la repubblica, alla luce di un nuovo quadro di stabilità mondiale, determinato dal bipolarismo Usa-Urss, le geometrie internazionali si sono fatte meno discontinue anche per l’Italia. Per i governi si è trattato in sostanza di mantenersi nell’alveo del Patto atlantico e contemporaneamente di essere parte attiva nel processo di unità europea. Senza dimenticare la vocazione e la coscienza mediterranea italiana. Una nuova fase di disorientamento è iniziata all’alba del nuovo millennio col superamento dello schema bipolare mondiale, che in Italia è stato pressoché coevo al traumatico ricambio della classe dirigente. Dopo quasi cinquant’anni in cui essa ha potuto godere di un equilibrio globale garantito dalla necessità di due forze in campo di competere senza distruggersi, un trentennio di oscillazione febbrile tra ancoraggio ai punti di riferimento di sempre e tentazioni pruriginose di accostarsi alle (nuove o rinate) potenze dell’est, Russia e Cina. In mezzo i doveri sempre più stringenti imposti dall’Unione Europea. Di questi secondi ottant’anni della politica estera dello Stato italiano, quelli che coprono tutta l’età repubblicana fino a oggi, parliamo meglio con Luca Riccardi, docente di Storia delle relazioni internazionali all’università di Cassino e del Lazio meridionale. Tra le sue pubblicazioni dedicate proprio alla storia della politica estera italiana ricordiamo L’ultima politica estera. L’Italia e il Medio Oriente alla fine della Prima repubblica (Rubbettino, 2014).

– Professore, la politica estera italiana dell’epoca repubblicana è stata atlantista in modo lineare fino a Moro, che ha introdotto alcune importanti variazioni sul tema come l’apertura ai palestinesi. Condivide questo? E con il ritorno della destra al potere grazie a Berlusconi, invece si è tornati a un filo-americanismo più ortodosso?
La politica estera italiana è sempre stata atlantista, anche negli anni in cui Aldo Moro e Amintore Fanfani la ispirarono. Non ci furono, al contrario di quello che talvolta si è detto, tentazioni neutraliste. In realtà questi due uomini politici democristiani interpretarono, in chiave italiana, anche se in maniera diversa, la politica della Distensione, così come si affermò sul piano internazionale negli anni Sessanta-Settanta. L’atlantismo non era contraddittorio con l’attenzione e l’amicizia per i popoli arabi. L’Italia è sempre stata, in maniere diverse e a seconda delle epoche, filo-americana. Lo è ancora. Quello che i governi Berlusconi hanno introdotto è stato un allineamento con gli USA molto più marcato sulla politica mediorientale, in particolare sul tema delle relazioni con lo Stato di Israele. Fino a quel momento, direi nel 2001, i governi italiani avevano praticato la cosiddetta ‘equidistanza’ che però, per ragioni di ordine economico come di influenza politica nel Mediterraneo, era fortemente sbilanciata verso i popoli arabi. Tuttavia l’amicizia verso Israele, sebbene talvolta problematicamente, non è mai venuta meno“.

– In sostanza l’equilibrio italiano in mezzo al mondo bipolare uscito dalla seconda guerra mondiale si fondava sulla coesistenza contrappositiva tra Dc e PCI, che riproponeva in scala (ridottissima) il grande gioco internazionale della guerra fredda tra Usa e Urss. Ovviamente questo gioco delle parti c’era anche in altri paesi occidentali, ma in Italia questo scenario di conflitto senza scontro diretto ha particolarmente senso visto che il PCI era il partito comunista  più potente del mondo occidentale, dopo quello sovietico. È d’accordo?
Il PCI è nato come una forza politica antisistema. Questa sua caratteristica però nel corso degli anni si è andata attenuando per diverse ragioni. Innanzitutto l’esperienza della Costituente dove il gruppo dirigente comunista condivise la fondazione della Repubblica vedendo accettate, in parte, alcune sue istanze di ordine politico o ideologico. Poi la crescente esperienza di governo negli enti locali dove si è affermato un pragmatismo riformista di fondo che ha spinto i comunisti a intravedere un’alternativa alla politica rivoluzionaria. Inoltre la crisi del modello sovietico, che già sembrò affacciarsi negli anni Sessanta, indusse la classe dirigente di Botteghe Oscure, che non era più quella degli anni Quaranta, ad avvicinarsi a un modello di “democrazia borghese” in chiave progressista, con al centro gli interessi delle classi lavoratrici. La DC ebbe la forza politica di opporsi alla crescita di consensi del PCI tramite parole d’ordine come “libertà”, “pluralismo”, “interclassismo”; e una pratica di governo tesa alla valorizzazione della funzione dello Stato nell’economia. Sotto il profilo organizzativo, cercò di imitare l’efficienza dimostrata dai suoi avversari comunisti. Ma questi ultimi, a loro volta, furono costretti a confrontarsi con “l’agenda ideologica” della democrazia occidentale assorbendone alla fine gran parte dei valori e dei comportamenti“.

– Dal sovietismo genetico del PCY al filorussismo della Lega: cosa cambia?
Tutto. Perché la Guerra fredda è finita da oltre trent’anni. Perché il PCI non era un partito personale e populista. Il PCI aveva una sua strategia internazionale che si fondava su una miriade di legami con forze politiche, movimenti, sindacati non soltanto comunisti, di tutto il mondo. La scelta della Lega di privilegiare i rapporti con la Russia, al di là di eventuali rapporti di natura contingente, ha come obiettivo il contrasto al modello di democrazia politica che fa del Parlamento il suo centro vitale. La Lega mostra di preferire una democrazia, come quella russa, in cui il motore è l’azione del singolo leader le cui decisioni vengono soltanto ratificate dal popolo. Ma in cui non esiste, o è fortemente compressa, la dialettica tra le diverse realtà della politica e della società che poi determina l’azione complessiva del governo. Una dialettica forse troppo complicata, ma che però è garanzia di una democrazia diffusa, condivisa anche da realtà politiche e culturali che normalmente si combattono“.

– Politica filorussa sta alla Lega come politica filocinese sta ai Cinque Stelle: condivide queste due proporzioni?
L’interesse dei Cinque Stelle per la Cina appare più approssimativo e forse frutto di scelte di governo non ben meditate. L’azione internazionale è stata, per gli esponenti di questa “nuova” forza politica, forse, il campo in cui si è rivelata con maggiore nettezza la loro inesperienza e, in alcuni casi, anche la loro impreparazione. Attaccarsi a tutto ciò che appariva anti-establishment non è stata una scelta proficua; soprattutto nel momento in cui, volente o nolente, il Movimento diveniva parte integrante dell’establishment stesso“.

– Si può dire che c’è un carattere definito della politica estera dell’Europa unita a cui i Paesi membri devono conformarsi deponendo, anche su questo fronte, una parte della loro sovranità? In generale nell’Europa unita, nella sua visione complessiva di politica estera, qual è il peso specifico della Farnesina?.
Innanzitutto va detto che, come tendenza, il complesso del processo di integrazione europea mira alla riduzione delle sovranità nazionali in ogni campo sostituendole con un’azione sovranazionale comune. Il campo della politica estera, nonostante i notevoli passi avanti fatti sin dall’inizio degli anni Settanta, è ancora in larga parte sottoposto alla volontà dei governi nazionali. La progressiva convergenza degli interessi tra gli Stati membri però fa ben sperare per il futuro. Ma è un processo lungo che maturerà quando all’interno delle classi dirigenti europee si affermerà, non solo retoricamente, la convinzione che l’Europa, come entità unitaria, potrebbe giocare un importantissimo ruolo sul piano globale. In questo campo l’Italia ha giocato la sua partita, a fasi alterne e non sempre in primo piano, ma ci sta. Nel corso della Prima Repubblica, anche se non con continuità, in alcuni momenti, è stata decisiva. Ma l’Italia di oggi soffre di un ripiegamento che non le consente di esercitare, se non occasionalmente, una funzione internazionale rilevante. Ma non è detto che, passato questo periodo, non possa tornare protagonista“.