Russia. Putin: unipolarismo Usa addio

A Vladivostok rilanciato il mondo bipolare.

di Gianluca Vivacqua –

Lo scorso 29 agosto, durante il suo intervento al Forum sugli Investimenti nell’Estremo Oriente russo, a Vladivostok, Vladimir Putin ha pronunciato una frase che potrebbe passare alla storia: “Il mondo unipolare è obsoleto e sta per essere sostituito da un nuovo ordine”. Lo stesso concetto è stato poi da lui ribadito il 15 settembre in apertura del vertice della Shanghai Cooperaton Organization a Samarcanda.
Il presidente russo sorvola (pur avendolo presente, non ci sono dubbi) sul fatto che il mondo unipolare, a guida americano-occidentale, a sua volta è il prodotto del superamento del mondo bipolare scaturito dalla Seconda guerra mondiale. Un mondo modellato sullo schema classico Atene-Sparta: naturalmente è chiaro che non può esserci una possibilità (né tantomeno una pretesa) di esattezza storica identificando gli Usa, col suo blocco di alleati, come l’Atene del secondo Novecento e gli Urss come la moderna Sparta. È puramente sulla base di suggestioni che possiamo definire la Nato la nuova Lega Delio-Attica e considerare il Patto di Varsavia un equivalente della Simmachia spartana (o della Lega del Peloponneso). Il primo accostamento avrebbe una ragione idealistica: gli Usa e il blocco occidentale fanno della democrazia (liberale) il loro valore di bandiera, e su di essa fondano la loro superiorità culturale; in questo hanno molto in comune con Pericle, che in un celebre discorso riconosceva ad Atene il primato su tutta la Grecia proprio per via del suo governo democratico. Il paragone Urss-Sparta allude invece a un sistema politico che finisce per permeare nel profondo il modo e lo stile di vita dei cittadini. L’austerità tipica del regime socialista, che per vocazione ripudia le ricchezze e il loro accumulo (oggi diremmo gli agi prodotti dal capitalismo) e privilegia un godimento collettivo di pochi beni ed essenziali ricorda molto il mondo spartano post-licurgheo. A far crollare l’equilibrio bipolare che si era retto nel corso della seconda Pentecontaetia (i quasi cinquant’anni, in effetti non più di 44, che vanno dalla fine della Seconda guerra mondiale alla caduta del muro di Berlino; 46 se si arriva al ’91, l’anno della fine dell’era gorbacioviana) e a determinare la vittoria di un blocco su un altro non fu nulla di simile a un’altra guerra del Peloponneso (meglio, a un’altra seconda guerra del Peloponneso, poiché la prima si può paragonare alla somma dei fronti bellici aperti dalle due superpotenze nel corso della guerra fredda), ma piuttosto la disgregazione di uno dei due poli, l’Urss, come conseguenza indesiderata e diretta della politica riformatrice di Mikhail Gorbaciov.
Già, proprio l’uomo che è spirato circa 24 ore dopo che Putin aveva pronunciato le parole che stiamo esaminando. E la cui memoria Putin non ritenne opportuno onorare oltre lo stretto necessario. Perché, per lui come per gli altri nostalgici dell’Urss, della sua grandezza imperiale, è Gorbaciov la causa della rovina. Lui e Shevarnadze, il suo braccio destro agli Esteri. La dottrina Sinatra, il diritto riconosciuto ai Paesi federati nell’Unione ad autodeterminarsi e a intraprendere quel percorso politico che ritenevano il migliore e il più giusto per il loro avvenire (“la propria strada”). Come se al governo di Washington fosse venuto in mente di permettere agli Stati della sua Federazione di scegliere se sganciarsi da essa!
Eppure la dottrina Sinatra si fondava su un principio che è in pratica lo stesso che Putin ha proclamato a Vladivostok, in un altro passaggio del suo intervento non meno significativo: nello specificare in cosa consista questo nuovo ordine da lui intravisto, egli infatti ha aggiunto che esso sarà fondato tra l’altro “sul riconoscimento del diritto di ogni Paese o popolo a seguire il suo percorso sovrano di sviluppo”. Anche in questo programma, in fondo, si può sentire qualcosa di spartano, in particolare qualcosa del principio di autonomia delle città contenuto nella pace di Antalcida, il trattato che segnava la fine della lunga guerra con Atene e l’inizio dell’egemonia spartana sulla Grecia, egemonia sostenuta dalla Persia (il trattato fu dettato dal Gran Re in persona) ma destinata a non durare troppo a lungo.
Tuttavia, scendendo più nel fattuale della geopolitica, in effetti questo nuovo ordine teorizzato (o profetizzato) dal presidente russo non è altro che un ritorno al bipolarismo mondiale. Ma non è il bipolarismo deuteronovecentesco del blocco contro un altro: è piuttosto quello protonovecentesco della galassia di alleanze contrapposte. Almeno, questo dovrebbe tornare a essere uno dei due poli, cioè quello in cui la Russia si candida a essere protagonista. Lo sappiamo: oltre che della Russia sovietica, Putin è un nostalgico anche di quella zarista e dall’inizio dello scorso decennio si sta divertendo a replicare alcune tappe post-napoleoniche della storia romanoviana, dall’aurea età alessandrina (quella dello zar Alessandro I) all’ultima nicolina. Stretta sin dal 2015 una Santa Alleanza con la Siria per la repressione dei moti insurrezionali volti a rovesciare il raìs e la bonifica del Paese dalle organizzazioni combattenti che di quei moti costituivano il prolungamento, il numero uno del Cremlino vagheggia ora una vera e propria Triplice Intesa con Cina e India. Nel lungo termine, però, non è detto che la Triplice non possa divenire Quadruplice, dal momento che Putin già immagina di coinvolgere gli Stati islamici come quarta gamba (al Summit mondiale della gioventù di Kazan li ha definiti “partner tradizionali nella risoluzione di molte questioni di attualità dell’agenda regionale e globale, negli sforzi per costruire un ordine mondiale più giusto e democratico”).
Ma anche nel disegnare questi scenari Putin sorvola (o finge di sorvolare) su una cosa: che un nuovo bipolarismo mondiale c’è già nella realtà dei fatti ma la Russia ne è (al momento) tagliata fuori. È un cambio di schema, anche storico se si vuole: dallo Sparta-Atene si è passati all’impero romano-impero partico (o persiano). E se l’impero romano è rappresentato dagli Stati Uniti, quello partico, o persiano, non può non essere identificato con la Cina. Come Sparta, la Russia cerca un’alleanza con la Persia (e quindi con la Cina) per riaffermare la propria potenza. Ma intanto, proprio come farebbe la Persia, cerca di condizionare la vita politica degli stati stranieri finanziando generosamente fazioni e partiti che le sono amici o che vorrebbe veder vincenti.