Ucraina: perchè occorre ritornare agli Accordi di Minsk

di Maurizio Delli Santi

Tra le varie congetture sulle linee d’azione per concertare una possibile intesa sulla crisi dell’Ucraina, la più concreta e realizzabile sembra quella di riportare al centro della questione gli Accordi di Minsk: si tratta del Protocollo di Minsk del 2014, e in particolare del Minsk II, sottoscritto l’11 febbraio 2015 tra Ucraina, Russia, Francia e Germania, sotto l’egida del Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE). Oggi l’iniziativa è proposta da Macron con il “Formato Normandia”, ma nel dicembre scorso la soluzione era stata già suggerita dall’Italia.

È ormai piuttosto condivisa l’opinione degli analisti che la questione della crisi sull’Ucraina non possa più considerarsi una delle tante scaramucce diplomatiche strumentalmente alimentate per mantenere il gioco di equilibrio delle grandi potenze. Il grado di mobilitazione raggiunto dalle forze armate russe ai confini dell’Ucraina, non solo ma anche nel Mar Nero e nel Mediterraneo, e i corrispondenti apprestamenti che Stati Uniti e Nato stanno mettendo appunto dimostrano che l’escalation è a un passo dall’acting out. Qualche osservatore ha valutato che la soglia dello scontro USA – Federazione Russa sembra aver raggiunto l’intensità della crisi di Cuba, quando nel 1962, il premier sovietico Nikita Chruščёv decise di installarvi un potente schieramento di missili nucleari strategici. E si tratta di un riferimento storico peraltro affatto forzato o inattuale, se si considera che, proprio in risposta allo stallo sulle “garanzie di sicurezza” (nessun altro allargamento della Nato e ritiro delle forze dell’Alleanza Atlantica dai Paesi entrati dopo il 1997) richieste agli Usa e alla Nato da Mosca, il 17 gennaio il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha dichiarato di non escludere un possibile dispiegamento di infrastrutture militari russe in America Latina per garantire “maggiore sicurezza” al Paese. Una dichiarazione che, non casualmente, ha fatto seguito ai comunicati ufficiali che riferivano di “colloqui franchi e collaborativi” del presidente Putin con i suoi omologhi di Cuba e Venezuela.
In questo scenario, sui principali media è ora tutto un susseguirsi di resoconti sulle pianificazioni militari in corso e sulla comparazione degli schieramenti, ma anche sui profili di rischio di entrambe le parti, specie per le conseguenze che un conflitto di tale portata recherebbe in un contesto generale di grave crisi economica e sociale. E certamente l’aspetto più considerevole riguarda il sistema degli scambi finanziari e commerciali, riferiti questi ultimi ai settori alimentari, alle tecnologie e alle materie prime, ma soprattutto all’approvvigionamento energetico. Come è noto, il nuovo cancelliere tedesco Olaf Scholz ha già indicato che potrebbe essere posto in discussione il progetto del gasdotto Nord Stream 2, che dovrebbe raddoppiare l’afflusso di gas russo all’Europa. In ogni caso gli interessi sul flusso energetico sono di entrambi i contendenti: se gli europei in particolare hanno bisogno degli approvvigionamenti, dall’altro la Russia ha necessità di mantenere il livello del suo export.
Se le prospettive dunque non sono rassicuranti, c’è una ragione in più perché la “comunità internazionale”, ma anche quella dei giuristi, ricerchi con maggiore convinzione il ruolo della diplomazia che in questo caso deve porsi necessariamente l’obiettivo di evitare il conflitto. E qui a dire il vero non sono mancate le iniziative e gli incontri ad alto livello, ma sembrano piuttosto orientati fino ad ora a sostenere la linea della deterrenza, prospettando per lo più il ricorso al sistema delle sanzioni internazionali e/o degli aiuti economici e militari all’Ucraina.
Ma una valutazione più attenta può cogliere invece l’importanza di un possibile punto di svolta, che altro non è che un punto di partenza da cui riprendere la matassa su cui ha iniziato ad intrecciarsi il filo della crisi. Tra le varie congetture sulle linee d’azione per concertare una possibile intesa, infatti, quella che appare la più concreta e realizzabile sembra quella di riportare al centro della questione gli Accordi di Minsk: si tratta del Protocollo di Minsk del 2014, e in particolare de Minsk II, sottoscritto l’11 febbraio 2015 tra i capi di Stato di Ucraina, Russia, Francia e Germania, e sotto l’egida del Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), al termine di un sofferto processo negoziale che portò ad un pacchetto di misure di contenimento della escalation della guerra del Donbass.
A parte il cessate-il-fuoco, la liberazione e lo scambio dei prigionieri, gli accordi stabilivano l’impegno a dare un assetto costituzionale all’Ucraina e a riconoscere margini di autonomia alle regioni di etnia russa. Importanti erano anche le previsioni di “misure di fiducia” che concernevano, ad esempio, il “ritiro di tutti gli armamenti pesanti allo scopo di creare una zona di sicurezza tra entrambe le parti, di 50 km per artiglierie (di calibro superiore a 100 mm), di 70 km per sistema lanciarazzi multipli e di 140 km per versioni di questi ultimi a lunga gittata (9A53 Tornado, BM-27 Uragan e BM-30 Smerch) e per sistemi missilistici tattici OTR-21 Točka”. In tale processo venivano previste le procedure proprie dell’OSCE di osservazione e verifica sul cessate-il-fuoco e sul ritiro degli armamenti pesanti.
Gli accordi sono anche ricordati per essere una iniziativa del “Formato Normandia”, perché il 6 giugno 2014 i leader di Francia, Germania, Russia e Ucraina si incontrarono a margine del 70° anniversario dello sbarco alleato del D-Day in Normandia e qui decisero di impegnarsi per dare una svolta alla guerra del Donbass. Anche su questo riferimento non ci si può sottrarre ad una riflessione che può essere una premessa suggestiva per riprendere il dialogo internazionale: il richiamo ad una fase cruciale della II guerra mondiale evoca il valore incommensurabile che rappresentò per il futuro delle generazioni l’intesa allora raggiunta tra Stati Uniti e Unione Sovietica, insieme a Francia e Gran Bretagna.
Oggi è proprio la Francia di Macron a rilanciare il “Formato Normandia” per ridare vita al dialogo tra Russia, Ucraina, Francia e Germania, ripartendo dagli Accordi di Minsk. Ma, ad onore del vero, chi ha seguito con attenzione i momenti delle dichiarazioni a margine dei numerosi vertici internazionali che si sono susseguiti ricorda anche una precisa indicazione venuta dal Presidente del Consiglio Mario Draghi e riportata dalle agenzie il 22 dicembre scorso: “Le relazioni tra Ucraina e Russia sono disciplinate dagli Accordi di Minsk che non sono stati osservati da nessuna delle due parti. Quindi un’osservanza di questi accordi potrebbe essere il primo passo”. L’Italia, che qualcuno in questi giorni ha indicato di non aver molto chiarito la propria posizione sulla crisi dell’Ucraina perché presa dalle elezioni presidenziali, aveva già indicato una strada da intraprendere concretamente. C’è solo da sperare che si ritorni effettivamente a ridiscutere sugli Accordi di Minsk.

* Membro dell’International Law Association.