a cura di Maddalena Pezzotti –
L’India è la settima economia e il terzo esercito per effettivi del mondo. Tuttavia, non è parte della Cooperazione Economica Asia-Pacifico – anche se è la terza forza economica asiatica; né del G7 – nonostante sorpassi il Pil di Canada e Italia; né dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico – sebbene emerga fra gli attori in Asia e Africa; e neppure dell’Agenzia Internazionale dell’Energia – essendo uno dei massimi consumatori; e tantomeno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Allo stesso tempo, è una realtà dove vivono in estrema povertà 270 milioni di individui, e persistono discriminazioni inammissibili sulla base del genere, la casta, la religione o la provenienza geografica. Sia a causa di tali contraddizioni, sia a conseguenza della sua marginalizzazione dalle istituzioni di governance globale, e dalla diplomazia degli Stati Uniti, la vitalità economica e la capacità di difesa dell’India sono state sottostimate.
Se la conclusione del ventesimo secolo ha visto l’ascesa della Cina, molti, fra cui IBM e McKinsey, credono che alla fine del ventunesimo, l’India si imporrà sullo scenario planetario. La Banca Mondiale ha anticipato che sarà l’economia maggiormente in crescita del 2018. Proiezioni degli Stati Uniti indicano che, entro il 2029, passerà a essere la terza economia, solo dopo quella cinese e americana. Di recente, inoltre, si è aperta strada un’India propositiva su problematiche trasversali come mutamento climatico, energia pulita – guadagnerà una produzione domestica solare di 100 gigawatt per il 2022, e mobilità internazionale dei lavoratori. Con un Pil di oltre 2 mila miliardi di dollari, avanzata tecnologia bellica, un programma nucleare e una stazione in orbita intorno a Marte – a una frazione del costo della Nasa, non può stare ancora chiusa fuori dalle stanze dove vengono decretate le priorità sopranazionali. Abbiamo scambiato alcune opinioni su questi temi con Paparao V. Biyyala, già alto dirigente della pubblica amministrazione indiana e diplomatico delle Nazioni Unite.
– Le previsioni di una età dell’oro indiana sono basate sulle tendenze della demografia e dell’urbanizzazione. Fra il 2010 e il 2050, la popolazione urbana salirà a 500 milioni, con un incremento di un quarto della crescita globale del gruppo fra i 15 e i 64 anni. Il modo in cui lo stato gestirà la duplice sfida definirà la natura della democrazia e potrebbe fruttare un ricco dividendo o cagionare precarietà sociale. Cosa vedi all’orizzonte?
“Potrebbe o non potrebbe esserci un’età dell’oro per l’India. Tutto dipende da come si porrà la leadership, ma non avverrà un disastro sociale. E’ accertata la sua riflessione sul futuro in bilico sulla corda delle opportunità offerte ai giovani; perciò sono in esecuzione investimenti nel settore educativo che fanno sperare in una gioventù qualificata, e occupata, che sarà una risorsa, e non un fardello. L’urbanizzazione credo sarà un’occasione non solo per l’India, bensì per molti altri paesi e, in particolare, per quelli occidentali. Le multinazionali si sono posizionate con solerzia per fare affari con i bisogni dell’India metropolitana. Grazie al calo delle nascite nelle regioni sviluppate, le operazioni si beneficeranno dell’allargamento dei mercati urbani indiani“.
– Nel corso della sua campagna elettorale nel 2013-14, il primo ministro Narendra Modi non messo l’accento sulla politica estera, concentrandosi su crescita economica, corruzione, e buon governo. Da quando ha ottenuto il mandato, all’opposto, si è recato in visita ufficiale in una cinquantina di paesi, e nutre la speranza di trasformare le relazioni con la Cina e il Pakistan, oltrepassare l’anacronismo del non-allineamento, ed estendere il proprio influsso nel sud e il sud-est asiatico. Malgrado i suoi migliori sforzi, non è stato comunque viabile resettare l’agenda internazionale. A quali fattori attribuiresti questo esito?
“In politica estera la riuscita non è istantanea. La visita di Modi in Cina vuole inaugurare un vincolo di ampio raggio. Sono convinto che nei decenni a venire l’India e la Cina occuperanno un posto di prestigio nel determinare l’ambiente internazionale. Il posto è vacante: gli Stati Uniti di Trump non vengono presi sul serio e la Russia di Putin non suscita fiducia sufficiente; chiari segni di un crack nell’ordine economico globale. D’altro canto, il rapporto con il Pakistan è complesso. Va ricordato che venne creato dalla Gran Bretagna per dividere gli indù e i musulmani e mantenere il controllo sull’India. Dalla sua fondazione, il Pakistan si è nutrito di sentimenti anti-indiani, negando il suo passato storico e commettendo gravi errori che hanno condotto alla pratica del terrorismo. Modificare l’attitudine e impiantare una connessione seria, democratica e pacifica sarà molto complicato. Nessun primo ministro indiano potrà mai arrivare a soluzioni tangibili con il Pakistan senza un rigetto della violenza e una riforma di sistema e cultura politica“.
– Il desiderio dell’India di essere riconosciuta come una potenza globale deve fare i conti con la propria idea di autonomia. New Delhi è transitata da un “non-allineamento riflessivo”, a una filosofia di “autonomia strategica”, sino alla presente visione di “mondo come una sola famiglia (dal sanscrito vasudhaiva kutumbakam), ma il filo rosso resta l’indipendenza politica. A tuo parere, l’autonomia può essere preservata nello stringere lacci con l’occidente?
“Un paese come l’India può irrobustire i suoi legami con l’occidente e al contempo conservare autonomia. Il non-allineamento, funzionale nel periodo della Guerra Fredda, non ha attendibilità nel contesto attuale. Il vasudhaiva kutumbakam è una via filosofica hindù, ma le relazioni internazionali sono basate su un approccio realistico, altrimenti conosciuto come interesse nazionale. Il primo ministro Modi, pur avendo dichiarato di abbracciarne lo spirito, non l’ha elevato a dignità dottrinale, come fece Nehru con il non-allineamento, componente essenziale della politica estera indiana“.
– Il presidente Donald Trump non ha articolato un piano per l’India, sebbene abbia espresso che non siano mai apparse così promettenti, e fuori dagli schemi conosciuti di Washington, abbia invitato l’India a contribuire allo sviluppo economico dell’Afghanistan. Pensi che il dialogo con gli Stati Uniti possa essere rinnovato?
“Sin dall’inizio del suo mandato Trump si è mostrato duro con il Pakistan, al contrario di molti suoi predecessori. Dovremo però aspettare per vedere quanto lontano si spingerà nel metterlo sotto pressione affinché non continui a fare un uso strategico del terrorismo. La partecipazione dell’India al processo di pace in Afghanistan è stata una mossa incoraggiante del presidente Trump. Ritengo che sia Bush sia Obama abbiano preso seri abbagli nell’assecondare il Pakistan, introdurlo militarmente in Afghanistan, e non permettere una veste rilevante dell’India nell’ambito della ricostruzione e il consolidamento delle istituzioni democratiche. La collaborazione con gli Stati Uniti è stata promossa a un nuovo standard per la convenienza di entrambi. Durante la guerra fredda, l’India è ricorsa all’Unione Sovietica, a motivo della continuata protezione statunitense al Pakistan propugnato dalla Gran Bretagna. La diplomazia americana ha dovuto rendersi conto della futilità di appoggiare uno stato instabile e inaffidabile che ha incubato stragi come quella dell’11 settembre nel cortile di casa“.
– La politica di “primato del vicinato”, che aspira a rinvigorire i nessi esistenti con il sud asiatico, ha generato risultati misti. Nonostante il successo in Afghanistan e Bangladesh, i colloqui con il Pakistan sono stati sospesi dopo una provocazione diplomatica, posteriori attacchi terroristici e altre rappresaglie. Da dove potrebbe essere riannodato il discorso?
“Ha premesso con esattezza che la politica non ha prodotto quanto desiderato. Esclusi Afghanistan e Bangladesh, i rapporti con tutti gli stati limitrofi non sono a un livello accettabile. In effetti, il primo ministro Modi è in vasta misura più incisivo in altre parti del mondo che con il vicinato. I colloqui con il Pakistan saranno utili solo se verrà garantita una controparte governativa democratica e un esercito sottoposto all’autorità civile. In mancanza di consapevolezza e impegno nutro seri dubbi sull’andamento del progetto“.
– La possibilità per l’India di diventare una potenza trainante dipenderà dalla sua abilità di misurarsi con l’influenza della Cina. Il rifiuto di New Delhi di avallare l’iniziativa di Pechino “One belt, one road” è riflesso di una precisa volontà, concretata nella politica “sguardo all’est”, di sottrarle terreno nella regione, promuovendo il commercio, attraendo capitali, e offrendo cooperazione nel campo della difesa. Qual è lo status delle relazioni bilaterali, tenendo in conto le incursioni militari cinesi nei territori disputati di Ladakh e l’altopiano del Doklam?
“Non credo che l’India debba competere con la Cina. Nel ventunesimo secolo le relazioni internazionali e l’intero concetto di potere si stanno aggiornando. Per esempio: possiamo affermare che la presenza militare degli Stati Uniti in medio-oriente stia condizionando in positivo i comportamenti? Al contrario, nel lungo periodo arrecherà più danni dei profitti previsti per le compagnie petrolifere. L’obiezione alla rete viaria cinese, disegnata intorno alla frontiera indiana, si regge su una valida preoccupazione di sicurezza, in particolare per quello che concerne i territori contesi, e la Cina ha dissidi di questo genere con tutti i confinanti. Quello che si ignora è che l’India e la Cina sono state sempre in pace, anche grazie alla formidabile barriera naturale dell’Himalaya. Solo il sostegno dell’India ai tibetani, per ragioni umanitarie, ha provocato tensioni negli anni cinquanta e scontri nel 1962. Del resto, i due paesi hanno innescato solidi accordi commerciali nel corso della storia che potrebbero essere accelerati attraverso la risoluzione delle controversie territoriali e uno stimolo alla coesione nelle zone transfrontaliere. L’intesa con la Cina sta germogliando su tutti i fronti, all’obiettivo comune di esercitare un peso superiore, anziché rimanere relegate a uno spazio che accomoda il tornaconto dell’occidente“.
– L’interazione commerciale fra l’India e il Golfo Persico è lievitata da 5.5 bilioni di dollari americani a 137 bilioni nel biennio 2014-15, rendendolo il principale partner commerciale; quella con l’Iran ha toccato i 16 bilioni di dollari americani ed è destinata a salire. La rivalità fra l’Arabia Saudita e l’Iran potrebbe mettere in pericolo gli interessi energetici nel medio-oriente dell’India, dove tra l’altro vivono 5.5 milioni di emigrati, i quali fra il 2015 e il 2016 hanno inviato a casa 36 bilioni di dollari americani in rimesse. Esiste un modo di navigare in acque turbolente e conquistare una posizione chiave?
“L’India ha una tradizione di intercambio con il Golfo Persico dalla scoperta di giacimenti di greggio. Il commercio si sta amplificando e continuerà a farlo, facilitato in gran misura dal sollevamento delle sanzioni all’Iran. Se i problemi con il Pakistan e l’Afghanistan fossero stati di minore entità, con la facoltà di usare le rotte terrestri, invece che solo quelle marittime, i volumi avrebbero potuto essere più alti. La diatriba fra l’Arabia Saudita e l’Iran non inficia il commercio estero. L’India si è tenuta al di fuori delle divergenze; contrariamente all’occidente, che si è schierato per una o l’altra fazione, spesso privo di coerenza rispetto a decisioni anteriori. L’India ha la più cospicua popolazione musulmana al mondo e si è distinta per aver concesso spazi equi a tutti i credo religiosi, pertanto non hai mai ceduto alla tentazione interventista di manovrare questioni inter-islamiche. Potrebbe quindi giocare un ruolo critico nel mitigare atteggiamenti settari, evitando il malinteso occidentale della democrazia da esportazione. In medio- oriente possono evolvere forme democratiche che non devono assomigliare ai modelli occidentali (leggi Islam politico). La più grande democrazia e società multiculturale del pianeta, che gestisce la convivenza pacifica di molteplici gruppi etnici e religioni, potrebbe rivelarsi un arbitro sapiente. I decisori della politica estera indiana non hanno mai saputo sfruttarne il vantaggio comparativo. C’è da auspicare che ne sapranno fare tesoro su scala mondiale“.