Bertuccelli, ‘Erdogan, figlio di una lunga storia tra democrazia e autoritarismo’

‘La differenza tra la democratura e la tirannia è che la prima mantiene i rituali della democrazia’.

a cura di Gianluca Vivacqua

C’è lo spazio per creare forme di governo nuove accanto alle tre canonizzate a partire da Aristotele (monarchia, aristocrazia, politia o democrazia) o, come nel mondo dei colori, null’altro può nascere se non dalle infinite combinazioni delle tinte primarie tra loro e poi tra loro e i loro derivati e quindi soltanto tra i derivati? Aristotele, simmetrico ingegno, a ciascuna forma di governo affiancava la sua degenerazione (la tirannide per la monarchia, l’oligarchia per l’aristocrazia, la demagogia per la democrazia) ma è chiaro che quello delle varianti (sempre verso il negativo) delle archái è un insieme aperto, apertissimo, con sfumature di tono praticamente inesauribili. E poi (una certa ingegneria genetica ha fatto passi avanti anche nella politica) possono esserci le chimere o, se si vuole, i Frankenstein: forme di governo “buone” che si incrociano con le “cattive”. Democratura è un esempio lessicale di quello che abbiamo appena detto. Si tratta più esattamente di una dittatura democratica o di una democrazia dittatoriale? Ma c’è differenza tra le due cose? Esaminiamo il caso della democratura turca col prof. Fulvio Bertuccelli, esperto di storia politica e culturale della Turchia tardo-ottomana e moderna. Docente all’università di Bologna e assegnista di ricerca alla Sapienza di Roma, è attivo anche come traduttore dal turco.

– Professor Bertuccelli, cosa intendiamo esattamente per “democratura”? Quali sono le sue caratteristiche essenziali e in cosa si differenzia dalla tirannia classica?
“Si tratta certamente di un argomento che non è possibile esaurire in poche parole. Mi limiterei a dire che il concetto di ‘democratura’ (parola ibrida tra democrazia e dittatura) si intreccia non solo con le vicende di paesi con una più lunga tradizione autoritaria ma è destinato a coinvolgere direttamente anche le società occidentali spesso assumiamo acriticamente come modelli di autentica democrazia. In generale, si può dire che le ‘democrature’ spesso definite anche ‘democrazie illiberali’ sono regimi in cui, accanto a un forte autoritarismo, che vede molto spesso un accentramento dei poteri nelle mani del capo dello Stato, le istituzioni e le procedure proprie della democrazia, come una formale separazione dei poteri e libere elezioni, continuano a essere mantenuti. Diversamente dai regimi dittatoriali in cui queste sono assenti o ridotte a vuoti rituali.
È evidente che la definizione di democratura è estremamente vaga, specialmente perché si inserisce in una tendenza di crisi globale della democrazia rappresentativa che non coinvolge solo paesi come la Turchia, l’Ungheria, la Polonia o l’India, ma anche, solo per citare i casi più eclatanti, Israele e gli Stati Uniti dove c’è un acceso dibattito generato dai tentativi di addomesticare l’indipendenza del potere giudiziario o di criminalizzare il dissenso da parte del potere esecutivo. Del resto, l’ascesa dell’influenza di partiti della destra populista in Europa, che spesso hanno nella loro agenda progetti di ristrutturazione istituzionale in senso presidenziale, ci fanno capire che siamo di fronte a un fenomeno globale che può avere declinazioni estremamente diverse. In questo senso, ogni paese mantiene delle caratteristiche specifiche dettate da una molteplicità di fattori, dalla struttura economica alla storia sociale e culturale”
.

– In questo discorso più generale come si inserisce il caso Turchia?
“Piuttosto che proporre una definizione dell’attuale sistema politico in Turchia, mi limiterei a fornire alcuni spunti di riflessione da una prospettiva di lungo periodo. L’autoritarismo ha radici profonde nella cultura politica turca sin dall’epoca ottomana. Nel corso della storia la democrazia e le sue istituzioni rappresentative sono state spesso concepite come uno strumento utile al raggiungimento di specifici obbiettivi piuttosto che come un fine. Nella storia della Turchia non sono certo mancati genuini slanci democratici che, tuttavia, si sono alternati a involuzioni autoritarie in archi temporali estremamente brevi.
Mi lasci fare alcuni esempi.
La costruzione della Repubblica di Turchia, fondata nel 1923, sotto la guida di Mustafa Kemal Atatürk, è stato un processo che ha portato con sé mutamenti epocali. È stato uno dei primi esempi nel contesto mediorientale di regime costruito sulla base del concetto di sovranità popolare, con sé ha portato importanti cambiamenti relativi alla condizione delle donne, sfidando la tradizionale segregazione dei sessi, promuovendone la partecipazione alla vita sociale e accordando il diritto di voto attivo e passivo in anni in cui questo non era riconosciuto in molte società dell’Europa occidentale. Eppure, il nuovo ordine repubblicano kemalista, a parte brevi intervalli (1923-1925 e 1930) si configurò sostanzialmente come un regime monopartitico autoritario e repressivo nei confronti del dissenso e fautore di una rigida assimilazione delle minoranze etnolinguistiche musulmane, i curdi in primis ma non solo. Le prime elezioni libere, tenutesi nel 1950, videro la vittoria dell’opposizione liberal-conservatrice rappresentata dal Partito Democratico e sembrarono essere l’inizio di un’epoca di pluralismo libero dall’asfissiante tutela del partito-stato. Dopo pochi anni, tuttavia, lo stesso governo democraticamente eletto varò misure restrittive nei confronti dell’opposizione, chiuse le testate giornalistiche dissidenti e represse con l’impiego dell’esercito le manifestazioni studentesche, per finire poi rovesciato dal primo colpo di stato della storia turca nel 27 maggio 1960. Dal golpe scaturì la costituzione più liberale della storia del paese che accordò numerose libertà civili e sindacali, e stimolò enormemente il pluralismo politico. D’altro canto, il nuovo regime si costituì con il ‘peccato originale’ di processi farseschi e condanne a morte ai danni di alcuni dirigenti democratici e inaugurò una tutela militare sul sistema politico che si manifesterà con i successivi interventi militari del 1971, del 1980 e, in misura meno cruenta, con il golpe ‘postmoderno’ 1997 che forzò alle dimissioni il governo dell’islamista Necmettin Erbakan agitando lo spauracchio del ‘fondamentalismo islamico’.
Recep Tayyip Erdoğan, con il suo Partito della Giustizia e dello Sviluppo, è giunto al potere nel 2002 con l’obiettivo democratizzare la vita politica turca, ponendo effettivamente fine al regime di tutela dei militari, ricucendo i rapporti con una parte della comunità curda e ponendosi l’obiettivo di portare il paese all’interno dell’Unione Europea. Eppure già nei primi anni del suo governo, quando i media occidentali percepivano il suo governo come una felice sintesi tra Islam, laicità e democrazia esistevano già i segnali di una possibile involuzione autoritaria questa volta di stampo civile. Il naufragio dei negoziati di adesione all’UE, lo scoppio della guerra civile siriana ebbero importanti ripercussioni sul piano interno, portando il partito di governo a una retorica sempre più nazionalista.
Specialmente dopo il fallito golpe del 15 luglio 2016 e il referendum del 2017 che ha rimodulato l’architettura costituzionale in senso decisamente presidenziale, alcuni osservatori giudicano la Turchia ormai un ‘autocrazia elettiva’.
Malgrado la permanenza di meccanismi di partecipazione democratica il controllo del Partito della Giustizia e dello Sviluppo sui media si è progressivamente rafforzato. Ad oggi si può dire che mentre i mezzi di informazione siano saldamente allineati per il 90% con il partito di governo, i media di stato concedono stretti margini di comunicazione alle forze d’opposizione, così come sono all’ordine del giorno gli arresti e le incriminazioni ai danni di politici, giornalisti e semplici cittadini accusati di vilipendio alla massima carica dello stato, a volte solo sulla base di post sui social media. Le ultime elezioni di maggio hanno riconfermato nettamente Erdogan alla guida del paese, al secondo turno, con il 52% dei voti. E questo può essere una spia di due fenomeni:: da un lato il consenso della coalizione di governo sempre più influenzata dal discorso nazionalista, dall’altro la permanenza del dissenso di poco meno di metà della popolazione. Al netto degli errori politici dei partiti di opposizione, mi sembra che l’esistenza stessa di queste fasce dissidenti estremamente eterogenee e il fermento culturale di un grande e complesso paese costituiscano per il momento, a caro prezzo, la barriera di fronte a un ulteriore indirizzo autoritario del regime retto, che piaccia o meno, dallo stratega politico più abile dagli anni di Atatürk”
.

– Nello scenario geopolitico del futuro, che appare sempre più dominato dalla Seconda guerra fredda (Cina-USA), quale ruolo potrebbero giocare la Turchia e, più in generale, il Medio Oriente islamico?
“Il Medio Oriente islamico al momento non può essere considerato un attore geopolitico unico, diviso com’è dalle contrapposizioni tra l’asse Turchia-Qatar e quello Arabia Saudita-Egitto, e i distinti obiettivi dell’Iran. Sembra comunque evidente che Ankara ha dato (e darà) prova di essere un attore di primo piano nella ridefinizione degli equilibri internazionali attraverso una politica spregiudicata per il raggiungimento di quelli che considera i suoi obiettivi strategici. L’intervento diretto e indiretto nel conflitto siriano, in Libia e il ruolo che sta giocando nel conflitto russo-ucraino, supportando attivamente l’Ucraina ma non rompendo le relazioni con la Russia, lasciano supporre che continuerà a sfruttare la propria posizione liminale nel Mar Nero, in Medio Oriente, nel Mediterraneo e nei Balcani. Del resto, le relazioni economiche con la Cina sono andate rafforzandosi. La Cina è il terzo mercato per l’esportazione dei prodotti turchi e, come messo in evidenza da diversi analisti, la Turchia è uno snodo strategico all’interno della nuova via della seta cinese. L’abilita di Erdoğan nel porsi come mediatore dovrà di certo misurarsi con numerosi ostacoli nel medio-lungo periodo come dimostrato dall’attuale conflitto a Gaza. Resta infatti da capire per quanto tempo la Turchia potrà conciliare la politica proattiva e multilaterale con la sua convinta appartenenza alla NATO in un contesto segnato da rischi crescenti di nuovi scenari di conflitto”.

(Le opinioni espresse dall’intervistato sono strettamente personali e non si propongono di riflettere le posizioni delle istituzioni con le quali intrattiene rapporti di collaborazione o della testata).