Catalogna. Puigdemont ripara in Belgio. Ma la vicenda assume toni farseschi

di C. Alessandro Mauceri

La vicenda della Catalogna non cessa di fornire spunti di riflessione. Il presidente catalano Carles Puigdemont, dopo essere stato destituito dal governo spagnolo e incriminato con tutti i suoi ministri per “ribellione” dalla procura spagnola, è riparato in Belgio. Una fuga quanto mai coperta dal mistero: per evitare problemi alla frontiera sarebbe andato prima in macchina da Girona a Marsiglia (il viaggio dura circa quattro ore… per evitare complicazioni in aeroporto?) da dove avrebbe preso l’aereo per Bruxelles dove potrebbe chiedere l’asilo politico al Belgio. Una segretezza e una cautela inutili: quando è partito, infatti, non erano state ancora presentate nei suoi confronti misure cautelari e quindi l’ex presidente catalano poteva viaggiare liberamente fuori dai confini spagnoli. Non sarebbe la prima volta che un president scappa dalla Catalogna e si rifugia in Belgio: prima di lui Francesc Macià sotto la dittatura di Primo de Rivera, Lluis Companys e Josep Tarradellas sotto quella di Franco.
Ma non è questa la cosa sorprendente. Anche il fatto che un cittadino spagnolo fugga dalla nuova “repubblica” appena dichiarata per rifugiarsi in un paese dove vige la monarchia è anomalo. Ma forse nemmeno troppo: il Belgio è il solo paese dell’Unione Europea che concede l’asilo a cittadini di altri paesi membri.
Sempre che di richiesta d’asilo si debba parlare. Domenica scorsa il segretario di Stato belga per la Migrazione e l’Asilo, Theo Francken, del partito nazionalista fiammingo N-Va, aveva offerto con un tweet asilo politico a Puigdemont e agli altri catalani che “si sentono minacciati politicamente”. Dichiarazione immediatamente smentita dal primo ministro belga Charles Michel e da fonti del partito N-Va che hanno smentito anche l’incontro tra il presidente della regione belga delle Fiandre, Geert Bourgeois e l’ex presidente catalano: Carles Puigdemont che non sarebbe a Bruxelles “su invito della N-VA”, come ha dichiarato ai media belgi il portavoce del partito nazionalista fiammingo Joachim Pohlmann. Anche il ministro dell’Interno Jan Jambon, membro anch’esso dell’Alleanza Neo-Fiamminga, ha dichiarato che “non è a conoscenza” della visita di Puigdemont in Belgio precisando che “non ha avuto alcun contatto” con il leader separatista negli ultimi giorni.
Intanto, mentre ci si chiede cosa sia andato a fare Puidgemont in Belgio, in Catalogna la presidente del Parlament, Carme Forcadell, (dopo aver dichiarato su Twitter: “Continuiamo a lavorare”), ha annullato la seduta dell’Ufficio di presidenza, rilevando che la convocazione è “senza effetti” proprio a causa della dissoluzione del Parlament annunciata venerdì scorso dal capo del governo spagnolo, Mariano Rajoy. In Catalogna, nel frattempo, molti sentono già un clima pre-elettorale: non per l’indipendenza ma in vista delle votazioni del 21 dicembre per le elezioni nazionali.
Alla fine la procura spagnola ha formalmente accusato Puigdemont di “ribellione”, “sedizione” e “malversazione”. Il procuratore dello Stato Juan Manuel Maza ha chiesto che siano interrogati d’urgenza, che vengano decise misure cautelari e che si imponga loro di pagare una garanzia di 6,2 milioni di euro, pena la confisca dei beni. Una decisione anceh questa che merita una riflessione attenta (ma anche di questo, pochi hanno parlato): il reato di “ribellione” implica una “sollevazione violenta” mentre le manifestazioni in Catalogna sono sempre state pacifiche. Sono molti i giuristi che hanno fatto rilevare che il referendum del primo ottobre non è mai stata una “sedizione violenta”.
La situazione nella regione spagnola sta assumendo contorni farseschi dopo che l’incriminazione di Puidgemont è stata trasmessa in un video su tutti i media. Un’attenzione che televisioni e giornali, specie quelli internazionali, non hanno riservato alla partecipazione di centinaia di migliaia di persone alle manifestazioni contro l’indipendenza della Catalogna e a favore del dialogo costruttivo. Un’adesione tanto massiccia quanto quella per la secessione. Già il 7 ottobre, a Madrid e in altre città spagnole, in migliaia avevano manifestato in favore dell’unità del paese e contro l’indipendenza della Catalogna. Unionisti e sostenitori dell’estrema destra che rivendicano l’unità del paese, ma manche semplici manifestanti che chiedevano l’apertura di una trattativa tra il governo centrale e quello catalano. Un dialogo che, invece, il governo centrale ha negato nascondendosi dietro la giovane (risale al 1978) Costituzione spagnola che sancisce “l’unità indissolubile della nazione spagnola, patria comune ed indivisibile di tutti gli spagnoli, riconoscendo e garantendo il diritto all’autonomia”.
Altro aspetto della vicenda poco dibattuto dai media è la fuga in atto di moltissime imprese dalla Catalogna (specie dopo che il 6 ottobre il parlamento spagnolo ha approvato una nuova legge per aiutare le imprese a trasferire la loro sede legale dalla regione): banche, aziende energetiche, farmaceutiche e di servizi tutte in fuga per altre regioni spagnole. Come Abertis, soscietà di infrastrutture o Caixa Banking Foundation, che gestisce la società holding che controlla Caixabank, che sposterà il suo quartier generale a Palma di Maiorca, o Gas Natural Fenosa. E poi Banco Sabadell, Sociedad General de Aguas de Barcelona (Agbar), partecipata al 100% da Suez Environnement España, Oryzon, Dogi, Eurona, Arquia Banca, Policlinic, Ballenoil, Naturhouse, Derby Hotels e molte altre. Una fuga in massa giustificata non tanto dalle agevolazioni fiscali quanto piuttosto dall’incertezza che oggi è il nemico numero uno delle grandi imprese.
Tutto questo mentre Puigdemont è corso a nascondersi proprio nel paese che dove ha sede il governo dell’UE. Ebbene anche l’atteggiamento dei paesi dell’Unione Europea e, in generale delle organizzazioni internazionali avrebbe meritato una riflessione (che nessuno, però, si è azzardato di fare). Finora le Nazioni Unite si sono guardate bene dall’esprimere il proprio giudizio sull’indipendenza catalana (come, del resto, sulle istanze di indipendenza di decine di altre regioni nel mondo). Nessuna reazione né alle istanze di Puigdemont che ha più volte denunciato all’Onu e al Consiglio d’Europa la “repressione” e la “persecuzione giudiziaria” di Madrid contro i leader catalani, né al documento fatto circolare dalla missione della Spagna all’Onu che parla di “reiterato disprezzo dell’ordine costituzionale e delle regole democratiche” che ha avuto un “profondo impatto sulla vita politica, economica e sociale della Catalogna, portando a un grave deterioramento dei valori di coesistenza, benessere sociale e crescita economica, e causando crescenti livelli di incertezza e sfiducia”. Il premier spagnolo, Mariano Rajoy, in un’intervista a El Pais, ha ribadito che “la Spagna continuerà ad essere la Spagna” e che una mediazione internazionale “non sarebbe di grande aiuto”.
Alla fine i membri del Consiglio di Sicurezza ONU hanno deciso di fare come sempre: non fare nulla. Dato che in realtà non c’è stato un vero e proprio bagno di sangue (nel qual caso, la questione sarebbe diventata automaticamente un affare internazionale) l’unico intervento delle NU è stato quasi informale: l’Alto commissario Onu per i diritti umani, Zeid Ràad Al-Hussein, ha dichiarato di essere “molto turbato” dalle violenze in Catalogna e ha esortato “le autorità spagnole a garantire indagini complete, indipendenti e imparziali su tutti gli atti di violenza”. “Le risposte di polizia devono essere sempre proporzionate e necessarie”, ha aggiunto Zeid. Un giudizio fin troppo diplomatico che sa di lavaggio delle mani biblico: “L’attuale situazione dovrebbe essere risolta attraverso il dialogo politico, con il pieno rispetto delle libertà democratiche”.
A questo proposito, anche il Pontefice non ha rinunciato a dire la sua, ribadendo all’ambasciatore spagnolo presso la Santa Sede, Gerardo Bugallo, che la Chiesa è contraria verso ogni atteggiamento che non si basi sul rispetto della legalità. Un commento anche questo, quanto mai diplomatico e poco chiaro circa dalla parte di chi stia il Vaticano.
Comportamento ancora più ambiguo, se possibile, quello dei paesi dell’Unione Europea (a conferma che a Bruxelles e Strasburgo interessa solo la circolazione di merci e valuta e non la Politica, quella con la P maiuscola). In generale la maggior parte dei paesi europei, dopo aver riconosciuto i diritti della Catalogna, ha dichiarato che non riconoscerà l’indipendenza della regione. Lo ha fatto con parole che lasciano intendere più che il rispetto di questa o quella ideologia geopolitica, la paura del verificarsi di situazioni analoghe al proprio interno (le regioni che vorrebbero dichiararsi indipendenti in Europa sono decine). Donald Tusk, presidente del Consiglio Europeo, ha dichiarato che “Niente è cambiato per l’Europa, la Spagna è ancora l’unica parte con cui dialoghiamo”. Ancora più duro il commento di Antonio Tajani, Presidente Parlamento Europeo: “Nessuno in Europa riconoscerà la Catalogna come un Paese indipendente”. “No, non esiste la mediazione europea: il problema catalano è un problema spagnolo, il governo cercherà una soluzione all’interno del quadro costituzionale spagnolo, non è un problema dell’Unione Europea” ha detto, lavandosene le mani (anche lui) senza mezzi termini.
Grande indecisione anche da parte di Cina e Russia. Non per motivi politici o geopolitici ma legati ai cospicui interessi economici. Da un lato, l’indipendenza della regione potrebbe aprire possibilità di investimento in Europa (anche grazie alle opportunità derivanti dall’importanza strategica del porto di Barcellona). Anche il “non ingresso” nell’Ue della Catalogna (i tecnici sono stati chiari: ci vorrebbe lo stesso tempo che una normale procedura d’accesso, ovvero anni), farebbe comodo a Cina e Russia aprendo una porta in una regione posizionata strategicamente nel Mediterraneo. Dall’altro ad ostacolare il supporto di Cina e Russia all’indipendentismo della regione sono gli investimenti di Pechino in tutta la penisola iberica (che ammonterebbero ad almeno 1,7 miliardi di dollari, solo nel 2016).
Ma la cosa più strana è che a nessuno pare importare la cosa più importante: ovvero la volontà popolare (quella dei catalani). Un fatto che, anche questo, meriterebbe una riflessione dato che avviene nel XXI secolo in un paese sviluppato e democratico.