Dagestan, tra tensioni etniche, terrorismo e crisi economica

di Giuliano Bifolchi

Abdullatipov grandeIl Distretto Federale del Caucaso del Nord rappresenta una delle regioni maggiormente difficili da gestire da parte del Cremlino a causa di una situazione politica, economica, sociale, di sicurezza ed etnica complessa, che Mosca sembra non riuscire a comprendere a pieno. Un caso esemplare è la Repubblica del Dagestan, attualmente sotto la guida di Ramazan Abdulatipov, Stato nord caucasico che sta registrando un forte aumento delle tensioni etniche al suo interno ed in continua lotta contro la minaccia del terrorismo locale aggravata da una situazione economica interna disastrosa.
Il Dagestan negli ultimi anni è andato a sostituire la Cecenia per quel che riguarda le repubbliche nord caucasiche maggiormente colpite dagli attacchi terroristici; secondo i dati presentati da Kavkaz Uzel, portale specializzato nell’informazione ed analisi degli eventi nel Caucaso, nel primo trimestre del 2015 gli attacchi terroristici hanno prodotto un totale di 32 vittime, tra cui 28 morti e 4 feriti. Nel secondo trimestre il bilancio delle vittime è stato di 25 morti mentre nel terzo si è raggiunto un numero totale di 46 persone, di cui 41 sono rimaste uccise e 5 ferite. L’ultimo periodo ottobre – dicembre 2015 è stato il peggiore con un totale di 49 persone coinvolte in atti terroristici di cui 31 morti e 18 feriti. In totale nel 2015 il Dagestan ha visto ben 152 vittime di attacchi terroristici di cui 125 hanno perso la vita e 27 sono state ferite. Tale dato, seppur grave, è inferiore però a quello del 2014 che in totale vedeva 293 vittime di cui 208 morti ed 85 feriti e fortemente distante dalle 641 vittime, di cui 341 morti e 300 feriti, del 2013.
Se guardiamo i dati possiamo quindi affermare che le politiche interne del Dagestan e l’azione di contrasto del Cremlino sembrerebbero aver prodotto i frutti sperati con una netta diminuzione negli ultimi 2 anni sia degli attacchi che dell’incidenza che questi hanno sulla popolazione; a contrastare però questi dati ci sono l’inasprimento delle tensioni interne dal punto di vista etnico, la sfiducia della popolazione per la leadership di Abdulatipov, la mancanza di un progetto di sviluppo economico che realmente risolva i problemi di disoccupazione e disagio sociale e l’ascesa dello Stato Islamico nella regione. I dati, seppur positivi, non possono quindi essere presi come assoluti e devono essere contestualizzati in un fenomeno maggiormente ampio che ha visto molti combattenti e militanti nord caucasici andare in Siria ed Iraq a combattere tra le fila di Daesh, allontanando momentaneamente la minaccia terroristica nella regione.

Abdulatipov e le tensioni interetniche.
Daghestan fuoriUno dei motivi di conflittualità all’interno della repubblica è sicuramente la difficile coabitazione dei differenti gruppi etnici del paese che vedono la maggioranza àvara ottenere attualmente un trattamento favorevole rispetto alle altre comunità etniche. La scelta di Mosca di nominare Abdulatipov leader della repubblica daghestana, sembrerebbe dopo due anni di governo essere fallimentare ed aggravare una situazione interna già difficile.
La volontà di Mosca era quella di far guidare il paese da una persona riconosciuta a livello locale come “facente parte del Dagestan”, e non quindi un esterno del Cremlino, supportando la sua autorità con aiuti economici, progetti di sviluppo incentrati principalmente sul turismo ed ovviamente dispiego di forze di sicurezza pronte a contrastare la minaccia terroristica. Molto probabilmente la scelta di Abdulatipov è stata dovuta ad un’alta considerazione del Cremlino nei suoi confronti e nel suo ruolo di esperto in tematiche e conflitti etnici all’interno della Federazione Russa; nel 2013 infatti il Cremlino andava a sostituire l’allora presidente Magomedsalam Magomedov, ritenuto incapace di gestire lo Stato daghestano e di favorirne la coesione sociale e lo sviluppo economico, proprio con Abdulatipov. A distanza di 2 anni dal suo insediamento come presidente, però, è evidente come il paese non abbia registrato i progressi sperati, anzi le tensioni etniche sono aumentate con le accuse rivolte al leader daghestano di preferire la maggioranza Avara di cui egli stesso fa parte.
Occorre dire che la scelta di Mosca nei confronti di Abdulatipov sembrerebbe essere stata ponderata ed intelligente se si guarda alla storia e alla carriera del presidente daghestano che lo ha visto spesso impegnato in tematiche inerenti le relazioni interetniche. Nel 1988 infatti Abdulatipov si era trasferito a Mosca dal Dagestan divenendo consulente del dipartimento per le Relazioni Etniche presso la Commissione centrale del Partito Comunista Sovietico; in seguito, dopo l’elezioni come direttore del Consiglio delle Nazionalità del Supremo Consiglio delle Repubblica Socialista Federale Sovietica Russa (RSFSR), nel 1997 Abdulatipov divenne vice primo ministro per gli Affari delle Nazionalità della Russia. Il vero salto di carriera è avvenuto però nel 1998 con Abdulatipov nominato alla carica di ministro delle Politiche delle Nazionalità perdendo però questo ruolo di grande prestigio quando, con l’elezione di Vladimir Vladimirovich Putin a presidente della Federazione Russa, il Cremlino decise di cambiare la sua tattica e politica nel Caucaso del Nord utilizzando il “pugno duro” ed escludendo dalle cariche amministrative a livello federale e dai ruoli di potere i cittadini russi nord caucasici.
La nuova opportunità di mettersi in luce e di guadagnare prestigio agli occhi del Cremlino è stata data ad Abdulatipov nel 2013, essendo stato scelto come il successore di Magomedsalam Magomedov, ottenendo però fin da subito insuccessi per quel che concerne la gestione dei conflitti interetnici locali che vedono lo scontro per quel che riguarda il territorio tra kumucchi, àvari e laki e l’insoddisfazione nel sud del paese da parte dei lezgini, i quali etichettano la politica dell’attuale presidente daghestano come una seria minaccia alla loro identità.
Un caso esemplare del favoreggiamento da parte del Governo di Makhachkala nei confronti degli àvari è stata la cerimonia di celebrazione di questo anno dei natali di Derbent, antica città storica nel sud del paese la quale improvvisamente ha cambiato la sue età da 5mila anni a soltanto due millenni; tale cerimonia è stata etichettata dagli attivisti lezgini come una parata in onore del presidente daghestano e della cultura àvara. E’ doveroso sottolineare inoltre che il nazionalismo lezgino è divenuto molto forte negli ultimi anni in Dagestan ed ha compiuto il suo ultimo step con l’adozione della bandiera lo scorso ottobre 2015, simbolo che unisce tutta la popolazione di etnia lezgina.
Le accuse rivolte nei confronti di Abdulatipov sembrano non essere infondate se si pensa che, secondo le fonti locali e gli attivisti delle comunità etniche minori sempre in lotta con la maggioranza àvara, l’attuale presidente sarebbe reo di favoreggiamento e clientelismo nei confronti di alcuni personaggi influenti del distretto di Tlyarata situato nel sud-ovest del paese, in un’area di montagna, e confinante con Azerbaigian e Georgia da cui egli stesso proviene. Se si considera il fatto che i precedenti presidenti daghestani erano originari dei distretti di Khunzakh e Gunib, è possibile notare come non solo con l’ascesa di Abdulatipov si sia registrato un netto cambiamento nei rapporti interetnici con la preferenza data agli àvari, ma anche all’interno degli stessi àvari è avvenuto un cambiamento di potere. A conferma di quanto affermato dagli esperti della regione e dagli attivisti ci sono le nomine alle cariche amministrative di persone originarie di Tyalarata come ad esempio Ramazan Aliev, capo dell’amministrazione del governatore della Repubblica, oppure Rajab Abdulatipov, fratello più giovane del presidente, il quale guida l’Ufficio del Servizio Federale di Migrazione. A questi è possibile aggiungere Jamal Abdulatipov, figlio del presidente, scelto come vice sindaco della città di Kaspiisk e Abdulmuslim Khanipov, nipote del presidente, a cui è stata conferita una carica di prestigio all’interno dell’amministrazione presidenziale. A concludere il quadro dei “ragazzi di Tlyarata”, impegnati nella scalata al potere nel Dagestan, è doveroso citare anche Magomed Abdurakhmanov il quale attualmente guida la Commissione per gli Affari Religiosi del governo della Repubblica del Dagestan.
La tendenza di Abdulatipov nel preferire persone della sua cerchia è chiara ed evidente anche a Mosca la quale, secondo quanto affermato da Valery Dzutsati, ricercatore ed esperto di Caucaso del Nord, avrebbe scelto Abdulatipov come presidente con l’intenzione di far guidare il paese da una persona riconosciuta come “vero daghestano” dai cittadini. La verità, continua Dzutsati, è che Abdulatipov dipende dai soldi di Mosca, dal suo petrolio e dalle sue truppe per quel che concerne la gestione della minaccia terroristica, ed a livello locale fonda il suo potere sulla sua cerchia etnica preferendo gli Avari e allargando il solco che divide le diverse etnie locali favorendo maggiormente gli scontri.

Sicurezza e stabilità in Dagestan sotto attacco.
Facendo parte del Caucaso del Nord, la Repubblica del Dagestan è interessata da anni dal fenomeno terroristico locale che ha visto in passato riunire i diversi gruppi e jama’at sotto la bandiera di Imarat Kavkaz (Emirato del Caucaso) ed ultimamente ha evidenziato la crescita di popolarità ed una ascesa preoccupante dello Stato Islamico.
L’ultimo attacco è quello che si è registrato lo scorso 29 dicembre 2015 quando un gruppo di uomini ha preso di mira la fortezza di Naryn-Kala, sito turistico della città di Derbent, uccidendo un ufficiale di guardia e ferendo 11 persone. La dinamica dell’attacco ha visto lanciare prima due granate contro un gruppo di turisti in visita alla fortezza e poi uno scontro a fuoco nel quale ha perso la vita Semyon Sporyshev.
Dalle indagini sembrerebbe che i fautori di tale attacco sarebbero due o tre uomini afferenti ai gruppi di insorgenza armata presenti nel sud del paese guidati dal trentenne Abutdin Khanmagomedov e fedeli allo Stato Islamico di cui si sono dichiarati sostenitori durante la scorsa estate. Secondo le forze di sicurezza russe lo stesso Khanmagomedov, insieme a Rajab Ismailov e Nariman Bashirov, avrebbe preso parte all’attacco della fortezza.
Tale evento ha forti conseguenze se si pensa che la città di Derbent, situata nel sud del paese al confine russo–azerbaigiano e caratterizzata da una forte componente etnica lezgina ed azerbaigiana, non era inserita tra le città a maggior rischio sicurezza; inoltre il voler prendere come obiettivo i turisti, fonte di reddito per un paese il quale vede tra i problemi principali la mancanza di un vero sviluppo economico a fronte di risorse interne significative, indica un cambiamento nella tattica perpetrata dai gruppi terroristici in loco e la volontà di inserire tra gli obiettivi non solo le forze militari e di polizia e gli ufficiali governativi, ma anche i civili.
A rendere l’accaduto ancor più grave è la rivendicazione dello Stato Islamico dell’attacco attraverso l’applicazione Telegram nella quale si evince come le forze di sicurezza ed i civili erano proprio i target pianificati dal gruppo armato che, secondo sempre quanto dichiarato da loro, non avrebbe subito perdite. Alcuni analisti dubitano però di un diretto collegamento tra Daesh e le forze insorgenti in Dagestan ed affermano che attualmente l’affiliazione allo Stato Islamico è vista come un qualcosa di popolare e che quindi l’identificare i propri attacchi con quanto voluto da Abu Bakr al-Baghdadi sottolinea soltanto la volontà di raccogliere la lotta armata locale all’interno di un brand riconosciuto a livello internazionale.
Aleksei Malashenko, analista presso Carnegie Moscow Center ed esperto di Islam in Russia, ha dichiarato che tali attacchi potrebbero essere una risposta alle dichiarazioni del presidente Abdulatipov effettuate al giornale russo Vedemosti all’inizio di dicembre nelle quali il leader daghestano affermava che la sicurezza interna del suo paese era in continuo miglioramento. Sempre nella stessa intervista Abdulatipov dichiarava che 643 daghestani si erano uniti allo Stato Islamico in Medio Oriente ed altri 67 avevano fatto ritorno in patria nel 2015 ed aveva concluso il discorso sicurezza e terrorismo sostenendo che soltanto un piccolo gruppo di insorgenti e militanti era ancora attivo in Dagestan.
Seppur il numero di attentati è diminuito nel 2015, gli esperti sottolineano che la politica governativa del Dagestan volta a prendere di mira la comunità salafita attraverso la chiusura di moschee, continui e regolari controlli della polizia e tentativi di sostituire i loro leader, potrebbe risultare maggiormente dannosa per la sicurezza interna portando la popolazione daghestana ad essere maggiormente favorevole allo Stato Islamico oppure ai gruppi militanti locali la cui sopravvivenza vede come aspetto fondamentale proprio l’aiuto da parte dei cittadini locali.

image