El Salvador. Il «pacto social» di Bukele

di Francesco Giappichini

Con ogni probabilità le elezioni presidenziali di El Salvador del 4 febbraio sanciranno la vittoria al primo turno del capo dello stato uscente, Nayib Bukele. Infatti, a leggere l’ultimo affidabile sondaggio, il rappresentante della formazione populista Nuevas ideas (Ni) conserva un vantaggio incolmabile, nei confronti del più credibile sfidante. Se a Bukele viene assegnato il 61,7% delle intenzioni di voto, al progressista Manuel Flores (in forza al Frente Farabundo Martí para la liberación nacional – Fmln) restano le briciole (il 2,6%). Sì, il consenso del bukelismo, ennesimo ircocervo post-ideologico generato dalla politica latinoamericana, non pare scalfibile, almeno nel medio periodo.
In verità, secondo molti osservatori, la vittoria di Bukele discende dall’aver saputo offrire alla società civile un nuovo patto sociale: un pacto social che propone di sacrificare certi diritti acquisiti, in cambio della soluzione drastica a quello che è generalmente considerato il problema più urgente del Paese. Non è insomma troppo ardito paragonare l’offerta politica di Bukele a quella del neo presidente argentino, Javier Milei: se però in Argentina i guai principali sono di natura macroeconomica e inflazionistica, nella Nazione centroamericana l’emergenza nazionale ha a che vedere con le mara, e le pandilla. E con l’urgenza di annientare anche (e soprattutto) fisicamente quell’umanità (quella feccia di umanità, direbbero alcuni), coi visi tutti tatuati.
Beninteso, almeno nel caso salvadoregno gioca un ruolo decisivo la narrazione, la capacità di raccontarsi. Del resto molti analisti non perdono occasione per evidenziare i limiti dell’Amministrazione Bukele, che riguarderebbero non solo e non tanto la manifesta compressione dei diritti, sofferta da indagati e reclusi. Tutte criticità che tuttavia non sfiorano minimamente né l’opinione pubblica interna, né quella internazionale, come dimostrano i tanti tentativi di esportare il modello securitario salvadoregno in altre aree latinoamericane. In primis, si segnala che il governo Bukele è accusato dal Dipartimento di Giustizia statunitense di una vera e propria trattativa Stato – pandilla: l’esecutivo di San Salvador avrebbe chiesto alla famigerata Mara salvatrucha (Ms, Mara o Ms-13), ovvero la principale organizzazione criminale del Paese, una sorta di riduzione concordata del numero di omicidi, (in aggiunta ovviamente al sostegno politico).
Una «reducción pactada» che poteva essere anche fittizia, l’importante era far sparire i cadaveri. Tutto ciò, in cambio di miglioramenti delle condizioni carcerarie per i suoi membri, e di un occhio di riguardo per gli affiliati ancora in libertà. Tutte accuse ribadite dal Dipartimento del Tesoro di Washington, che ha addirittura segnalato accordi analoghi con altre due gang. Un’altra perplessità riguarda l’effettiva efficacia del celebrato «modelo carcelario», che anche all’estero (specie in Ecuador ma anche in Perù) vuol esser riproposto. In particolare, non corrisponde al vero che El Salvador sia divenuto il Paese più sicuro dell’America latina, come declamano i rappresentanti governativi, a cominciare dal presidente, in ogni consesso internazionale: si assiste più semplicemente a una costante riduzione del tasso di omicidi, iniziata già nel ’16. Infine, altri osservatori segnalano il grave vulnus istituzionale, o meglio l’artificio giuridico, che ha consentito una candidatura presidenziale consecutiva, esplicitamente esclusa dalla lettera della Costituzione.