Gb. Cameron cerca di gestire “l’eurofobia”. E Clegg propone restrizioni alla libera circolazione dei lavoratori

di Guido Keller

clegg grandeLe elezioni europee di maggio hanno rivelato in Gran Bretagna la crescita del sentimento anti-europeo con l’avanzata dell’Ukip (United Kingdom Independence Party) di Nigel Farage, un partito che forse più che “euro-scettico” è corretto definire “eurofobo”. E Farage non ha mai risparmiato occasione di rimproverare ai conservatori del governo Cameron l’eccessiva morbidezza nei confronti di Bruxelles, un sentimento che nella Gran Bretagna di oggi sta sempre più prendendo piede al punto di spingere il premier a promettere per il 2017 un referendum sulla permanenza o meno nell’Europa dei 28. Tanto per fare qualche nome, dichiaratamente anti-europei sono oggi il sindaco di Londra, Boris Johnson (uno che non nasconde il desiderio di prendere il posto di Cameron a Downing Street), il ministro dell’Istruzione Michael Gove e quello della Difesa Philip Hammond: una situazione sempre più complicata e difficile da gestire, che costringe David Cameron a continui slalom fra i dovei imposti dagli accordi internazionali ed un’opinione pubblica che sempre meno vuole riconoscersi sotto la bandiera blu dalle 12 stelle.
Per limitare i danni di un consenso sempre più eroso è intervenuto oggi il vicepremier liberal-democratico, Nick Clegg, il quale se l’è presa con l’immigrazione intra-europea e, affidandosi al concetto di “sostenibilità”, ha affermato che “E’ normale, e lo dico come filoeuropeo, che si riformi la libertà di movimento. Non si tratta di chiudere le porte, ma di stabilire il flusso di persone che entrano nel Regno Unito in maniera prudente e onesta”.
La Gran Bretagna vuole, per farla breve, rimettere in discussione il principio fondamentale sulla libera circolazione dei lavoratori sancito dall’articolo 45 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea e ulteriormente precisato dal diritto derivato e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia europea, che prevede la possibilità per i cittadini dell’Unione di cercare lavoro in un altro paese dell’Ue, lavorare in tale paese senza bisogno di un permesso di lavoro, vivere in questo paese per motivi di lavoro con la propria famiglia, restarvi anche quando l’attività professionale è giunta a termine e godere della parità di trattamento rispetto ai cittadini nazionali per quanto riguarda l’accesso al lavoro, le condizioni di lavoro, nonché qualsiasi altro beneficio sociale e fiscale.
Le uniche restrizioni sono rappresentate da motivi politici e di sicurezza pubblica, salute pubblica e lavoro nel settore pubblico.
Clegg in particolare vuole intervenire sulle relazioni con i nuovi membri dell’Ue, i cui cittadini devono oggi attendere fino a sette anni prima di acquisire il diritto di vivere e lavorare stabilmente in altri paesi dell’Unione: si tratterà di introdurre un allungamento di questo periodo per via delle differenze economiche tra i diversi Stati.
“E’ interesse di tutti coloro che vivono qui, che siano nativi del Regno Unito oppure no, essere sicuri che assieme a un nuovo membro dell’Ue non ci siano sorprese o preoccupazioni”, ha sostenuto Il vice-premier, che solo nei giorni scorsi aveva proposto di togliere alla Russia i Mondiali di calcio e si era espresso contro Israele per la crisi di Gaza.
La carta giocata da Clegg dà, insomma, un colpo alla botte ed uno al cerchio. Tuttavia, se preoccupa la possibile entrata nel Regno Unito di lavoratori di prossimi paesi membri quali, ad esempio, l’Albania, il Kosovo e la Serbia, altresì a farne le spese è uno dei principi fondanti dell’Unione europea, per cui un domani sarà più difficile arrivare a una crescita omogenea tale da rendere forte e resistente l’intera Unione davanti ai colpi delle macro-aree economiche, quali, ad esempio, la Cina e l’emergente India.

Nella foto: Nick Clegg