Giornalisti arrestati e magistrati sostituiti: è la Turchia che vuole entrare in Ue

di Dario Rivolta* –

Turchia Europa grandeTrentatré “capitoli” devono essere approfonditi e approvati dai rappresentanti della Commissione Europea prima che si realizzino le condizioni per l’accesso di un nuovo Paese alla’Unione Europea. Tra questi, un’importanza basilare è sempre stata data alla libertà di stampa, all’indipendenza della magistratura e al rispetto delle minoranze.
La Turchia è stata ammessa a questa “osservazione” nel 2005 e, da allora, solo 14 “capitoli” sono stati aperti mentre uno solo è stato completato e cioè giudicato soddisfacente. Di certo non è il caso di nessuno dei tre “acquis” sopra menzionati. Al contrario, essi sono andati nettamente peggiorando e le negoziazioni sono state silenziosamente sospese.
Tuttavia, dopo la visita della cancelliera Merkel che è andata ad Ankara per implorare il presidente Recep Tayyp Erdogan al fine di fermare l’afflusso in Europa dei profughi, l’Unione, sotto ricatto, è stata obbligata a riaprire il processo di adesione.
In realtà, i motivi dell’interruzione delle trattative erano anche stati l’ostilità di Francia e Germania ad accettare ottanta milioni di nuovi “europei” turchi, e difficilmente, di là delle parole spese, quest’opposizione verrà meno. Che oggi si torni a riaprire le procedure non significa tuttavia che esse possano portare a un qualunque risultato positivo anche perché è evidente che la Turchia odierna, guidata dall’imbarazzante “Sultano”, si trova sempre più su una strada pericolosamente autoritaria e non c’e’ alcun segnale di inversione di rotta.
La magistratura è stata oggetto di un repulisti che ha portato all’eliminazione di molti giudici non “allineati”, i quali sono stati sostituiti con persone considerate più disposte a ubbidire agli ordini del Governo che a rispettare i codici. Molti giornalisti sono stati incarcerati per “reati di opinione” e le minoranze sono sempre più emarginate e perfino perseguitate.
Il rapporto con armeni e curdi non è mai stato facile per Ankara, anche se fino alla passata estate esisteva con questi ultimi un dialogo che sembrava incamminato sulla strada di una pacifica convivenza. Va ricordato che i curdi non sono mai stati riconosciuti come nazionalità distinta rispetto alla restante maggioranza turca: oltre a proibirne l’uso della lingua anche in privato, si negava la loro esistenza, definendoli semplicemente come “turchi di montagna”. Sulla scia del dialogo, quando esso sembrava ancora possibile, perfino il Pkk aveva dichiarato il “cessate il fuoco” e altri curdi avevano dato vita a un partito politico impegnato a ottenere democraticamente il giusto riconoscimento della propria cultura. Purtroppo, prima delle ultime elezioni, con il duplice intento di impedire un collegamento con i curdi di Siria e di ottenere la simpatia dagli elettori più nazionalisti, Erdogan ha rilanciato l’offensiva militare con bombardamenti e retate, riuscendo così a obbligare il Pkk a rompere la tregua e rispondere alla violenza con azioni armate. Oggi, come conseguenza, è lo stesso Direttorato Generale per la Sicurezza, Ente ufficiale dello stato turco, a dichiarare che più di 100mila curdi nel sud-est dell’Anatolia hanno dovuto lasciare le loro case e cercare rifugio altrove per fuggire i violenti scontri tra l’esercito e i guerriglieri.
Per quanto riguarda la libertà di stampa è sufficiente ricordare che il direttore del giornale “Today’s Zamam”, Bulent Kenes, è stato arrestato semplicemente per aver criticato su Twitter la politica interna ed estera del presidente. Anche il direttore e un giornalista di altro quotidiano, “Cumhuryet”, sono stati arrestati per articoli non graditi. La stessa sorte ha toccato decine di altri giornalisti. Tra loro l’editore e il direttore del settimanale “Nokta” che, nel processo cui sono sottoposti ufficialmente per aver “incitato alla guerra civile”, rischiano una pena di vent’anni di carcere. Se condannati, andranno a unirsi agli altri settanta colleghi già custoditi nelle prigioni turche.
Qualcuno, forse perché troppo popolare, non sarà processato e non andrà in galera. E’ il caso del noto giornalista televisivo indipendente Ahmet Hakan, “soltanto” picchiato a sangue davanti a casa. L’unico arrestato tra i suoi assalitori è stato immediatamente rilasciato. Anche il quotidiano più diffuso in Turchia “Hurryet” deve stare molto cauto in ciò che pubblica. Per aver osato avanzare dubbi sulla politica del presidente, la sede della redazione di Istanbul è stata assalita e semidistrutta. Da notare che tra gli assalitori c’era perfino un deputato in carica del partito di Erdogan. E’ andata però meglio ai giornalisti del quotidiano Sabah: il governo si è limitato a confiscarlo per poi orientarlo verso una direzione più “virtuosa” grazie al suo nuovo amministratore che, casualmente, è il genero del “Sultano”. Detto per inciso, quel deputato/genero, Berath Albayrak, è poi diventato ministro dell’Energia nel nuovo esecutivo.
Altre testate subiscono pressioni e intimidazioni più sottili: i potenziali inserzionisti sono diffidati dal comprare da loro spazi pubblicitari e li si “convince” all’obbedienza facendo mancare i fondi per continuare a uscire nelle edicole. Ove ciò non bastasse, si criminalizzano pubblicamente con accuse e minacce lanciate attraverso i microfoni delle radio e delle televisioni pubbliche anche da parte dello stesso Erdogan in persona.
Ecco, questa è la Turchia, nostra alleata nella Nato, e, almeno formalmente, candidata a diventare membro dell’Unione Europea. Noi crediamo nella necessità che il realismo debba guidare la politica estera degli Stati e siamo ben consci del ruolo geopolitico che il Paese anatolico riveste. Altrettanto fermamente, però, siamo convinti che non sia chiudendo gli occhi e cedendo ai ricatti di qualche presuntuoso dittatore medio orientale che si possano così meglio tutelare i nostri interessi.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali