Gli anni Trenta 80 anni dopo

di Giovanni Ciprotti

La crisi economico-finanziaria del 2007-2008 è stata più volte paragonata al crollo di Wall Street del 1929. Le similitudini tra i due eventi non mancano: originati entrambi da una crisi nel settore finanziario e da un eccesso di investimenti senza una corrispondente solvibilità degli investitori; in tutte e due i casi l’epicentro sono stati gli Stati Uniti; nel 1929 come nel 2008, l’iniziale crack finanziario ha successivamente avuto ripercussioni negative sull’economia reale, con il conseguente aumento dei fallimenti delle imprese e del tasso di disoccupazione.
Ma è possibile trovare analogie anche nelle reazioni delle opinioni pubbliche e dei governi negli anni successivi alla crisi: gli anni Trenta del XX secolo nel caso della Grande Depressione, il decennio appena trascorso per la crisi a noi più vicina.
Tra le prime misure adottate al deflagrare delle due crisi, ieri come oggi sono stati predisposti piani di salvataggio degli istituti bancari più importanti, una misura ritenuta necessaria per salvare il sistema ma certamente impopolare agli occhi dei cittadini.
Al di là delle analogie e delle differenze sull’evoluzione – ma anche sull’involuzione, se si pensa alla Germania nazista – delle società nei periodi immediatamente successivi alle due crisi, forse c’è una parola che più di ogni altra potrebbe descrivere l’atteggiamento dei cittadini e dei governi come reazione al declino dei sistemi produttivi nei singoli Paesi dell’Occidente: chiusura.
L’istinto di sopravvivenza, meccanismo naturale di ogni specie vivente, ha innescato nelle società colpite fenomeni di chiusura manifestatisi su diversi piani: economico, con la progressiva introduzione di dazi alle merci importate nel tentativo di difendere la produzione nazionale; politico, con la nascita o il rafforzamento di movimenti politici nazionalisti e, in alcuni casi, xenofobi (oggi in Europa li chiamiamo sovranisti); culturale, il cui effetto è la marginalizzazione, la discriminazione e persino la persecuzione di minoranze etniche, razziali o religiose, ritenute colpevoli di minare la coesione sociale di un Paese.
L’innalzamento a livello mondiale dei dazi, nello scorso secolo come ai giorni nostri, è scaturito da un’iniziativa di Washington, nel 1930 con lo Smoot-Hawley Tariff Act, nel marzo 2018 con i dazi sull’acciaio e sull’alluminio voluti da Donald Trump, il quale dichiarava: “Guerre commerciali giuste e facili da vincere” (cfr. Ansa, 2 marzo 2018).
La cronaca ci propone ormai quasi quotidianamente una nuova misura adottata dall’amministrazione Trump per arginare le importazioni negli Stati Uniti; soprattutto di origine cinese, ma nel mirino ci sono anche competitori come la Germania. Una “guerra dei dazi” a livello globale non è da auspicare, se si tiene conto dei nefasti effetti che ebbe negli anni Trenta del secolo scorso.
Scrive Manlio Graziano, esperto di geopolitica e docente all’Università della Sorbona e all’American Graduate School di Parigi:
“Quando (lo Smoot-Hawley Tariff Act) iniziò il suo iter parlamentare, nel 1929, 23 paesi avevano già minacciato ritorsioni: il risultato fu che le importazioni americane scesero da 4,4 miliardi di dollari nel 1929 a 1,5 nel 1933, e le esportazioni da 103,1 miliardi a 55,6 nel 1933. Le attività commerciali mondiali si restrinsero di due terzi, precisamente lo stesso livello di riduzione del volume di scambi tra Stati Uniti ed Europa” (cfr. Manlio Graziano, “L’isola al centro del mondo”, il Mulino, 2018, p. 216).
Le sofferenze economiche prolungate nel tempo, il senso di insicurezza delle classi medie e medio-basse e le difficoltà delle classi dirigenti nell’individuare soluzioni efficaci ai problemi delle imprese e dei lavoratori hanno reso più aspro il dibattito politico e alimentato lo sviluppo di movimenti e forze politiche che propongono misure autarchiche per uscire dalla crisi, manifestano ostilità per gli enti e le istituzioni sovranazionali, quali l’Unione europea, e propugnano un ritorno al sistema degli Stati-Nazione nel quale ciascuno Stato riacquisti una piena sovranità monetaria e di difesa dei confini nazionali dai pericoli che incombono sulla Nazione. In un clima sempre più esacerbato, la strada per aumentare la coesione sociale e il senso di identità nazionale passa attraverso la colpevolizzazione dei “nemici” da tenere lontano o da neutralizzare: etnie non autoctone, culture ritenute non assimilabili oppure religioni lontane da quella storicamente e ufficialmente accettata.
I cittadini, soprattutto quelli appartenenti alle fasce sociali più colpite dalla crisi, le più povere ma anche quelle culturalmente meno attrezzate, possono essere tentate dall’accettare acriticamente spiegazioni semplificate o addirittura volutamente distorte delle origini della crisi. Potrebbe allora accadere che il risentimento e la rabbia popolare siano indirizzati contro i presunti colpevoli della situazione attuale, quelli che “ci rubano il lavoro”, quelli che “inquinano il nostro modo di vivere”, quelli che “insidiano le nostre donne”. E l’untore di turno può essere l’ebreo, l’immigrato, l’omosessuale o il musulmano.
Negli ultimi anni in Europa abbiamo assistito alla nascita o al rilancio dei movimenti di estrema destra in molti paesi europei (Alternative für Deutschland in Germania, Alba Dorata in Grecia, CasaPound e Forza Nuova in Italia) e all’aumento di episodi di violenza nei confronti di esponenti politici, aderenti ad associazioni dedite all’assistenza ai più deboli o a semplici cittadini colpevoli di rappresentare un’idea multiculturale e inclusiva della società.
Il 5 giugno 2019 in Germania un militante di estrema destra ha ucciso Walter Luebcke, esponente di primo piano della Cdu in Assia, a causa delle sue idee pro-migranti. Pochi giorni fa, a Berlino, il rabbino Yehuda Teichal è stato insultato in lingua araba da due uomini, che poi gli avrebbero sputato addosso.
Il 23 luglio a Rouen, in Francia, è stato aggredito e ucciso un giovane ricercatore originario della Guinea. L’aggressore, un francese di origini turche, gli aveva gridato: “Voi sporchi neri, vi uccideremo questa sera”.
L’entità del fenomeno a livello europeo è ritenuta preoccupante, a tal punto da spingere l’Osce a pubblicare, nel 2016, un documento dal titolo “Perseguire giudizialmente i crimini d’odio” (cfr. https://www.osce.org/it/node/262261?download=true).
Secondo l’Ocse, “i crimini d’odio sono reati nei quali la vittima viene colpita in ragione della sua identità di gruppo (come la razza, l’origine nazionale, la religione o altra caratteristica di gruppo)” e “le vittime dei crimini d’odio sono scelte sulla base di cosa esse rappresentano, piuttosto che in ragione di chi sono”.
Anche in Italia sono aumentati gli episodi di intolleranza, in particolar modo nei confronti degli immigrati. Persone insultate mentre passeggiano per la strada, camerieri aggrediti da cittadini italiani mentre lavorano nei locali pubblici, fino ai casi più recenti di alcuni migranti presi di mira da una sassaiola in Puglia mentre si recavano al lavoro nei campi.
Quando il clima si fa così avvelenato, le parole pesano e i leader politici potrebbero contribuire a smorzare i toni oppure alimentare il risentimento dei cittadini per mero calcolo elettorale. In Italia, a fronte di dichiarazioni di netta condanna delle forze politiche per gli episodi di intolleranza, si deve registrare purtroppo qualche imbarazzante silenzio di figure politiche di primo piano. In alcuni casi, nei dibattiti politici assistiamo all’uso di toni e espressioni che, forse adatti ad una discussione in un bar, stonano sulla bocca di persone che guidano importanti forze politiche o hanno responsabilità di governo.
In un libro pubblicato nel 2006 e dedicato agli anni Trenta del secolo scorso, lo storico tedesco Wolfgang Schivelbusch ha tentato di analizzare alcune analogie tra la situazione che si era creata in Germania, in Italia e negli Stati Uniti dopo la crisi del 1929. Sul rapporto tra le aspettative della società e le forme di governo ritenute adatte a corrispondere a quelle aspettative, Schivelbusch scrive:
“Negli anni Trenta, i critici non si facevano gli scrupoli che ci facciamo noi oggi, non potevano certo immaginare che il corso della Storia avrebbe portato al genocidio. Erano più sensibili al fascino di movimenti che promettevano una difesa (anche ingannevole) dal caos, di quanto non fossero realmente attratti dalla democrazia. In altre parole, ciò che definiva quel decennio agli occhi dei contemporanei non era la futura disfatta del nazismo nel 1945, ma la Grande depressione del 1929. Sull’onda di quel disastro dell’economia mondiale non c’era nessuna ragione particolare per preferire il sistema politico più legato al capitalismo, la democrazia liberale, a quelli che facevano presagire un futuro più luminoso. La gente tendeva anzi a chiedersi se la democrazia non fosse inevitabilmente condannata a sparire in seguito al collasso economico del capitalismo liberale” (cfr. Wolfgang Schivelbusch, “3 New Deal. Parallelismi tra gli Stati Uniti di Roosevelt, l’Italia di Mussolini e la Germania di Hitler, 1933-1939”, Tropea Editore, 2008).
Se la popolazione ha la percezione di una situazione sociale fuori controllo, è possibile che giunga ad auspicare l’affermazione di una guida forte, persino autoritaria, purché sia in grado di promettere il ripristino di legge e ordine. È la dinamica alla base del successo di Viktor Orbàn, il primo ministro ungherese propugnatore della “democrazia illiberale” e punto di riferimento di tutti i movimenti sovranisti europei.
La storia ci ha insegnato a cosa ha portato, in Germania ma non solo, il cieco affidamento ad un “uomo forte”. Speriamo di non ripetere gli stessi errori.