Iraq. Perché Obama non può inviare le truppe

di Enrico Oliari

obama1Chi si aspettava un intervento di terra delle truppe statunitensi per fare fronte all’avanzata dei miliziani qaedisti dell’Isil (Stato islamico dell’Iraq e del Levante) è rimasto deluso: al momento il Pentagono sta intervenendo nel paese con provvidenziali attacchi aerei mirati a sostegno dei peshmerga curdi e della scarna iniziativa militare di Baghdad; oltre a questo l’amministrazione Obama sta portando avanti una complessa operazione di intelligence, sta facendo sorvolare i cieli dai droni per la ricognizione e soprattutto sta fornendo armi ai curdi, unico baluardo che in mesi di attacchi (Fallujah è caduta già a gennaio) ha saputo resistere all’impeto dell’Isil.
Per quanto (almeno ufficialmente) la fornitura di armi leggere e pesanti ai curdi sia stata concertata con il governo iracheno di Haider al-Habadi (imposto dagli stessi Usa), va notato che in passato Baghdad si è sempre rifiutata di fornire armi ai peshmerga (1) temendo un’insurrezione secessionista, per cui è lecito pensare che quanto sta accadendo nella regione, compresa l’ospitalità data ai profughi curdi, iracheni e siriani, possa portare un domani alla nascita di uno Stato curdo.
A determinare, tuttavia, la scelta della casa Bianca di non intervenire in Iraq con un contingente di terra sono stati motivi esogeni, riconducibili a quanto sta accadendo in Siria: un anno fa, il 21 agosto, 1.426 persone in un sobborgo di Damasco morirono a causa di un attacco portato a termine con armi chimiche, lanciato ancora non si sa bene da chi, anche se sembra consolidata la tesi degli jihadisti che volevano provocare la reazione dell’Occidente contro Bashar al-Assad.
L’intervento degli Stati (e quindi della Francia e della Gran Bretagna) fu fermato sia da un’acceso confronto interno (2), sia dai veti di Russia e Cina: Pechino ha in essere con Damasco corposi contratti di appalti e conta di fare dei porti siriani un approdo per le proprie merci dirette verso i ricchi mercati europei; Mosca, di fatto, detta legge in Siria, sia perché sostiene con le forniture militari il governo di Bashar al-Assad, sia perché ha a Tartus un’importante base militare composta di truppe, mezzi aerei, navi, sottomarini e mezzi corazzati. Fino a poco fa (se ne sta costruendo una ad Alessandria d’Egitto) era l’unica base russa in un panorama che andava dal Marocco al Kirghizistan che, con esclusione di Iran e Siria, vedeva esclusivamente basi statunitensi.
Un intervento militare in Iraq degli Stati Uniti sarebbe quindi benedetto da Mosca, che vedrebbe aprirsi la possibilità di inviare le proprie truppe in Siria in soccorso di Bashar al-Assad, tagliando così fuori definitivamente Washington e i suoi interessi da un paese che confina con Israele e che con Tel Aviv ha ancora aperta la questione delle alture del Golan, conquistate manu militari nel 1967.
Putin non aspetterebbe quindi altro e, visto lo stato di tensione dovuto alla questione ucraina, si sentirebbe autorizzato ad entrare in Siria senza neppure aspettare il placet del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Note:
1. cfr. Notizie Geopolitiche, Stabilità, crescita e solidarietà: vi spiego il “modello Kurdistan iracheno”. Intervista all’Alto rappresentante Rezan Kader.
2. cfr. Repubblica.it, Usa, scontro Kerry-Pentagono su intervento militare in Siria. Obama non si schiera.