Kerry a Baghdad, ma non basta: gli Usa devono muoversi. Perchè il disastro lo hanno fatto loro

di Enrico Oliari –

obama serio grandeDopo la magra figura dell’immobilismo Usa (300 osservatori non sono certo sufficienti per fermare l’avanzata degli jihadisti), la Casa Bianca ha inviato a Baghdad il Segretario di Stato, John Kerry: la visita, giunta un po’ a sorpresa, ha lo scopo di spingere perché si ritrovi l’unità e la stabilità negli ambienti politici iracheni e si possa fare fronte comune contro l’Isil, il gruppo dello “Stato Islamico dell’Iraq e del Levante”, legato ad al-Qaeda, che sta letteralmente conquistando il paese.
Nonostante quanto sta accadendo oggi sia l’effetto del vizio, tutto americano, di ribaltare i governi stabili per esportare “pace e democrazia”, concetto aulico che riassume una marea di interessi come il controllo del prezzo dei carburanti, il rafforzamento della propria presenza nell’area, il sostegno all’industria bellica e il farsi carico del ricco affare della ricostruzione, gli Stati Uniti continuano a tentennare, un giorno invitando le autorità ad andare d’accordo, un altro sventolando i conti di soldi inviati e spariti nel nulla ed un altro ancora girandosi dall’altra facendo finta di non vedere nulla.
Intanto le città irachene cadono una ad una sotto il controllo dei terroristi di al-Qaeda, chiamati oggi dai media occidentali semplicemente e sofficemente “miliziani sunniti”: nelle ultime ore è caduta al-Rutbah, 150 km a est del confine con la Giordania, nella regione dell’Anbar, ma le forze irachene si sono ritirate anche da al-Qaim, Rawa e Aana, ufficialmente “per essere ridistribuite”, ha spiegato il generale Qassem Atta.
al-Rutbah è un nodo strategico importante in quanto situato sull’autostrada tra Bagdad e due passaggi di confine con la Siria e la Giordania; ora lì i miliziani dell’Isil contano di raggiungere al-Haditha, dove sorge la grande diga che dà l’elettricità a Baghdad, la cui distruzione causerebbe enormi allagamenti. Per questo Atta ha schierato lì buona parte delle sue forze, ingrossate anche dagli sciiti volontari e dalle milizie dell’Esercito del Madhi di Muqtada al-Sadr, in realtà ideate dal leader sadrista per combattere proprio le truppe statunitensi.
Molte delle città importanti sono già cadute nei giorni scorsi, come Tikrit, dove continuano gli scontri e i raid aerei, Mosul, Samarra; Kirkuk, conquistata, è stata poi presa dai militari peshmerga della Regione Autonoma del Kurdistan iracheno, dove continuano ad arrivare profughi dal paese, che si vanno a sommare ai molti siriani giunti nei mesi scorsi.
I segnali, i molti segnali, di quanto stava per accadere non mancavano: già il nome di un’organizzazione impegnata fin dall’inizio del conflitto siriano,“Stato islamico dell’Iraq e del Levante”, avrebbe fatto intendere anche al meno esperto di geopolitica che c’era chi voleva estendere la propria azione anche al di fuori dei confini della Siria; ma soprattutto ci sono i disordini dell’Anbar, la regione a ridosso della Siria e della Giordania, tant’è che la città irachena di Fallujah è stata presa dagli jihadisti già a gennaio ed a poco sono serviti i tentativi dell’esercito di Baghdad di espugnarla.
Intanto il presidente Obama, che ancora sta pensando se avallare o meno l’intervento dei pasdaran iraniani a sostegno dell’esercito iracheno, ha inviato il proprio ministro degli Esteri John Kerry ad incontrare il premier Nouri al-Maliki, ancora non se ne conosce il motivo.
Anche perché Kerry è un collezionista di insuccessi su scala globale, basti pensare al fallimento del processo di pace israelo-palestinese, da lui caparbiamente voluto; o al cattivo investimento di fiducia dato ai Fratelli Musulmani in Egitto, la cui cacciata si è tradotta con lo stop ai finanziamenti e agli aiuti militari, ovvero il conseguente avvicinamento di Mosca al Cairo con tanto di impianto di una base per la Marina russa ad Alessandria; e si potrebbe continuare a lungo, passando per il Kirghizistan, la Libia, il Sud Sudan e l’Ucraina: tutti conti sbagliati di una politica statunitense inefficace e che sembra non considerare le conseguenze delle proprie azioni, del tutto ignorante delle peculiarità delle popolazioni e delle diverse aree geopolitiche.
L’imbarazzo è quindi totale: in Iraq non si doveva intervenire già nel 2003, ma, a frittata fatta, oggi sono gli Stati Uniti, che dal paese mediorientale si sono ritirati nel 2011 lasciando un conto di centinaia di migliaia di morti, un paese distrutto e la porta aperta agli estremisti, a dover prendere in mano la situazione. Ed a farlo, fosse anche una nuova guerra, deve essere il numero uno, il presidente Obama, premio Nobel per la Pace.