La Cina nell’Artico

di Dario Rivolta *

E’ risaputo come la Cina, gradualmente ma inesorabilmente, stia mettendo le mani su tutti i maggiori snodi marittimi attraverso i quali transitano i commerci mondiali. Dopo le sue installazioni all’ingresso e all’uscita dei canali di Panama, Suez, Gibilterra e Golfo Persico, sta anche cercando di fare la stessa cosa tra il Mar Cinese Meridionale e l’Oceano Indiano. In quest’area ha trasformato dei semplici scogli in isolotti facendoli diventare basi militari e ha già puntato gli occhi su tutti i passaggi marittimi tra il Borneo, l’Indonesia e la Malesia. Si è anche assicurata il controllo dello stretto braccio di mare tra lo Sri Lanka e l’India, passaggio che consente alle navi in transito di non dover aggirare l’isola e guadagnare così ore preziose di navigazione. L’ottanta percento del commercio marittimo mondiale è già in mano alla Cina e il novanta percento si svolge sull’asse Asia – Europa del nord.
C’era quindi da aspettarsi che Pechino non restasse indifferente a ciò che sta succedendo ai ghiacci dell’oceano Artico. Da qualche tempo si sa che il riscaldamento globale ne riduce l’estensione e che il transito delle navi in quell’area è stato reso possibile in periodi dell’anno molto più lunghi di quanto era possibile fare nel passato. Tale opportunità significa interi giorni di navigazione in meno tra l’oriente e l’Europa, con risparmi di carburante e di giorni di lavoro. Come non bastasse è anche noto che sotto quelle acque si stimano immensi, e mai sfruttati, giacimenti di materie prime tra cui gas e petrolio. Le stime dell’US Geological Survey parlano di un 22% di tutte le riserve mondiali di combustibili fossili e del trenta percento di risorse naturali dell’intero pianeta. In particolare, si parla di quelle “terre rare” indispensabili per la fabbricazione di tutto quanto abbia a che fare con l’economia digitale. Fino ad ora, i giacimenti conosciuti di queste materie si trovavano principalmente in Cina, cosa che ne aveva fatto in sostanza un soggetto monopolista.
E’ naturale dunque che tutti i Paesi, a cominciare da quelli che vantano coste sull’Artico, abbiano cominciato a posizionarsi nei punti strategici utili allo sfruttamento delle possibilità offerte dalle nuove condizioni. Il 30 novembre 2017, dopo due anni di negoziati, le nove Nazioni (più l’Unione Europea) dotate delle maggiori marine mercantili del mondo hanno sottoscritto un accordo per impedire la pesca commerciale in quelle acque. Tale intesa mira a proteggere la fauna marina che si prevede aumentare nella zona proprio a causa dell’incremento delle temperature medie. Dopo i primi sedici anni quell’accordo sarà rinnovato automaticamente ogni 5 anni, a meno che uno degli stati firmatari non ponga obiezioni.
Su tutte le altre forme di sfruttamento delle risorse dell’area non esiste, però, nessuna intesa e ciascuno sta procedendo come meglio crede.
I paesi che si affacciano con la maggiore superficie costiera verso il Polo Nord sono il Canada e la Russia (6mila km di coste nella sola Russia) che hanno da tempo rivendicato la loro sovranità sulle acque in corrispondenza dei passaggi di Nord-ovest (sopra il Canada verso l’Europa) e di Nord-est (sopra la Russia, da oriente a occidente). Tuttavia, anche la Norvegia (con le isole Svalbard), la Groenlandia e gli Stati Uniti (con l’Alaska) hanno voce in capitolo e ciò ha portato nel 1996 a creare un Consiglio dell’Artico, un organo puramente politico e consultivo, che ha subito coinvolto anche la Finlandia, l’Islanda e la Svezia. Dal 2013 sono stati ammessi quali “membri osservatori permanenti” pure la Corea del Sud, il Giappone, l’India, l’Italia (grazie alla Base Artica Dirigibile Italia e alla Torre Amundsen – Nobile Climate Change, stanziate da molti anni sulle Isole Svalbard) e la Cina. Quest’ultima, in particolare, ha dichiarato di auto-definirsi una potenza “quasi-artica” e ha diffuso un libro bianco che riporta la propria intenzione di considerare quella zona come il proprio “frigorifero del futuro”. Nel volume ha anche annunciato l’intenzione di realizzare una “Via Polare della Seta”. Il progetto ha assunto il nome di “Operazione Drago Bianco”.
Che non si tratti né di pura fantasia né di semplici parole si può riscontrare nei passi che, oramai da molti anni e con il solito stile di “under statement” e dichiarazioni win-win, Pechino ha cominciato a intraprendere.
Innanzitutto, ha aperto un’Ambasciata a Reykjavik con ben trecento persone stanziali. Che già questo sia qualcosa d’insolito lo si vede dal fatto che perfino gli Usa ne mantengono in loco solo cinquanta. Inoltre, in ogni occasione in cui si discute di sicurezza delle rotte marittime, di cartografia digitale o di ogni altra questione che riguarda l’Artico, la Cina pretende di cooperare, purché le sia ufficialmente riconosciuto il diritto di “esplorare e sfruttare” come i Paesi prettamente Artici.
Dal punto di vista operativo, con grande smacco degli Usa (e della Danimarca, cui in teoria il territorio apparterrebbe) i cinesi hanno allacciato rapporti molto stretti con la Groenlandia. I vertici Inuit di quest’isola sono sempre ricevuti a Pechino in pompa magna, come fossero capi di Stato, e i cinesi si sono impegnati a investire 15 miliardi di euro in cinque anni aprendo miniere di zinco e ferro, costruendo tre aeroporti e una grande base “scientifica”. Se non ci fosse stata una stizzita reazione americana, nel 2017 stavano per acquistare una dismessa base militare danese. Ciò che invece son riusciti a comprare attraverso la propria Shenghe Resources Holding Ltd di Shanghai è la società australiana Greenland Minerals and Energy. Tale impresa possedeva e gestiva il più grande giacimento di uranio e terre rare al mondo, situato nel sud dell’isola. Il fatto è che la Cina agisce nell’artico esattamente come ha fatto e sta facendo in Africa: sfruttamento delle risorse in cambio di finanziamenti per infrastrutture che, se non ripagate quando e come dovuto, diventeranno proprietà cinese. Anche sulle Svalbard, nel nord dell’Islanda e in Canada, Pechino ha realizzato a basi permanenti a scopo ufficialmente “scientifico”.
Dove non è nemmeno necessario nascondersi dietro lo schermo della “scientificità” è in Russia e noi dobbiamo ringraziare per questo tutti coloro che hanno spinto per instaurare con Mosca il regime delle sanzioni. Prima che qualcuno spingesse verso una nuova “guerra fredda”, i russi stavano cercando da noi aiuto in know-how e finanziamenti per lo sviluppo e lo sfruttamento di enormi potenziali giacimenti di gas nella penisola artica di Yamal. Si trattava di costruire il porto di Sabeta e di estrarre miliardi di metri cubi sia dal permafrost che offshore. Attualmente se ne ottengono 675 miliardi di metri cubi ma Putin promette che entro cinque anni la quantità sarà quintuplicata. Il progetto prevede investimenti per 27 miliardi di dollari e noi avremmo potuto approfittarne assieme ai russi tramite joint venture. Peccato che le sanzioni ci abbiano impedito di prendervi parte. Così il nostro posto è stato preso, guarda un po’, dalla Cina. Attraverso due banche, la Export-Import Bank e la China Development Bank e con la partecipazione del China Silk Road Fund e della China National Petroleum Corporation, Pechino vi ha investito 12 miliardi di dollari garantendosi così una partecipazione sul quel tesoro. L’obiettivo non finisce lì poiché la loro intenzione è di ottenere una presenza in tutte le infrastrutture della via polare a Nord-est.
E i nostri amici americani cosa fanno? Nonostante la guerra commerciale apparentemente dura con Pechino e forse all’insaputa di Trump, ad Anchorage in Alaska è stato firmato un accordo del valore di 43 miliardi di dollari per lo sfruttamento e l’esportazione in Cina di tutto il gas liquido ricavato dai giacimenti petroliferi dell’Artico statunitense.
Anni fa (1969) Bruno Lauzi cantava una strofa scherzosa intitolata: “Arrivano i cinesi”. Ebbene, oggi sono arrivati davvero. E sono ovunque.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.