Libano. Deboli basi per domare un contagio inarrestabile

di Gerardo Fortuna – 

salam tammamA una settimana dalla formazione del governo Salam, il Libano sembra ancora lontano dall’estirpare la spirale di violenza che da questa estate sta insanguinando le strade del Paese. Sabato sera due soldati sono rimasti uccisi nella valle della Beqa’, roccaforte orientale di Hezbollah, in seguito all’esplosione di un autobomba che era stata fermata per controlli. Solo tre giorni dopo la consegna della lista dei ministri al presidente Suleiman, due attacchi dinamitardi nel sud di Beirut avevano causato quattro vittime e un centinaio di feriti. Il gruppo qaedista delle Brigate Abdullah Azzam ha colpito stavolta il centro culturale iraniano nel quartiere sciita di Bir Hassan. La modalità del duplice attacco suicida – una prima autobomba apre una faglia nel sistema di sicurezza mentre la seconda entra direttamente nell’edificio per poi detonare – ricalca quella dell’attentato del 19 novembre scorso all’ambasciata iraniana che aveva fatto venticinque vittime, e segna pertanto quella che potrebbe diventare la tragica cifra stilistica del terrore sunnita nei quartieri meridionali di Beirut controllati dalla milizia del Partito di Dio.
L’inizio della crisi siriana aveva esacerbato le già pressanti tensioni interne, spaccando di fatto il campo politico libanese in due fazioni, una a favore, l’altra contro Assad. Se i sunniti libanesi appoggiano apertamente i ribelli anti-regime, le milizie sciite di Hezbollah sono impegnate direttamente nel conflitto siriano accanto alle forze alawite, per la prima volta nella loro storia in lotta contro altri arabi e non contro Israele. Il contrasto si è ben presto esteso oltre i confini siriani ed è ricaduto su quelli interni libanesi. Ai violenti scontri tra gruppi armati sunniti e alawiti per le strade di Beirut, Tripoli e Sidone, si è aggiunta da agosto una lunga serie di attentati dinamitardi che ha innescato un meccanismo ritorsivo di provocazioni e risposte ostili tra le due fazioni in lotta, meccanismo che ha portato Gideon Rachman sulle colonne del Financial Times a parlare di una strategia tit-for-tat bombing. E così anche gli sciiti hanno colpito duro in questi mesi. Lo scorso 23 agosto un attentato davanti a due moschee di Tripoli, città a maggioranza sunnita, ha provocato oltre 50 morti e 500 feriti, segnando la giornata più sanguinosa dalla fine della guerra civile del 1990. Ma assume maggior rilevanza simbolica l’autobomba esplosa nel centro di Beirut il 27 dicembre che ha portato l’uccisione dell’ex ministro ed esponente politico sunnita di spicco Mohammed Shatah.
A marzo dello scorso anno, l’ex premier Mikati era stato costretto a rassegnare le dimissioni proprio per non essere riuscito a ricomporre la pericolosa frattura che stava riportando il Libano sull’orlo di una guerra civile. Nonostante il rischio di un pericoloso vuoto politico che ne poteva seguire, le consultazioni del presidente Suleiman hanno avuto dopo due settimane un esito positivo, quando le preferenze dei gruppi parlamentari sono confluite sul moderato Tammam Salam, a cui è stato affidato l’incarico di formare un esecutivo di unità nazionale. Sunnita certamente vicino a Riad, quella di Salam è una figura gradita anche al Fronte 8 marzo guidato da Hezbollah, perché appartenente alla corrente di notabili sunniti rimasti nell’ombra dopo l’ascesa politica, a partire dal 1992, della famiglia Hariri, quindi non apertamente contro la Siria e meno favorevole all’ingerenza americana nel Paese dei cedri rispetto ai principali esponenti del Fronte 14 marzo guidato dall’ex premier Saad Hariri.
Dall’affidamento dell’incarico ci sono voluti 10 lunghi mesi di estenuanti negoziati prima che le forze politiche dominanti del Paese convergessero su una lista dei membri dell’esecutivo, presentata da Salam al presidente Suleiman il 15 febbraio. Oltre alla Courant du Futur di Hariri e a Hezbollah, il nuovo esecutivo può contare dell’appoggio del leader druso Walid Jumblatt, da tempo ondivago ago della bilancia nel confronto politico libanese, che si è assicurato i dicasteri dell’Agricoltura e della Sanità. Per far convivere nello stesso esecutivo i nemici mortali del Fronte 8 Marzo e del Fronte 14 Marzo si è reso necessario un criterio rigido di spartizione degli incarichi governativi: 8 ministeri sono andati agli sciiti (tra cui gli Esteri, l’Energia e il Lavoro), 8 alla coalizione sunnita (tra cui Interni e Giustizia) mentre i restanti 8 agli uomini di fiducia del premier e ai tecnici del presidente, oltre che ad alcuni esponenti delle altre due coalizioni rilevanti a livello nazionale.
Nonostante il difficile compromesso raggiunto, la natura composita di tale accordo non può che porre su basi precarie il futuro operato del governo. Particolarmente evidente è la mancanza di una posizione comune su quanto accade nella vicina Siria. Salam ha espresso a più riprese l’intenzione di voler perseguire la strada della neutralità circa gli affari interni siriani, in continuità con la sessione del dialogo nazionale del giugno 2012, la cui dichiarazione finale, sottoscritta anche dai rappresentanti di Hezbollah, aveva decretato la distanza e l’estraneità del Libano da tutti i conflitti regionali e internazionali, con un chiaro riferimento implicito a quello siriano. Per il Fronte 14 Marzo la partecipazione al governo di Hezbollah è incompatibile con il sostegno attivo delle sue milizie al regime di al-Assad. Di contro Nasrallah ha tenuto a precisare, in un’intervista ad al-Manar subito dopo l’insediamento del governo, come Hezbollah avrebbe continuato a mantenere i suoi soldati in Siria per note ragioni che andavano oltre le schermaglie politiche nazionali.
Non meno rilevanti sono i problemi di ordine istituzionale ed economico-sociale a cui il governo è chiamato a dare una risposta e per cui non sembra esserci un comune terreno di azione nell’insolita maggioranza che lo sostiene. Sarà compito di Salam favorire il dialogo nazionale in vista dell’elezione di un nuovo presidente, prevista per Costituzione entro la fine di aprile (Suleiman cesserà le sue funzioni il prossimo 24 maggio). In vista delle elezioni politiche di autunno, il governo dovrà inoltre fornire il Paese di una nuova legge elettorale che garantisca la stabilità e la rappresentanza delle varie confessioni religiose. Un accordo politico è reso ancora più difficile dalla riapertura a gennaio dei lavori del Tribunale speciale per il Libano, che dovrà istruire il processo contro i 5 indagati dell’uccisione dell’ex primo ministro Rafiq Hariri nel 2005. Tutti gli indagati sono infatti membri di Hezbollah e secondo alcune fonti l’uccisione di Shatah può essere letta come un messaggio ostile al Tribunale da parte degli sciiti.
Ma ad assumere i contorni di una vera e propria emergenza nazionale è la questione dei profughi siriani. Dall’inizio del conflitto, oltre un milione di sfollati hanno attraversato il confine orientale e si sono aggiunti ai trecentomila profughi palestinesi già all’interno del Paese. Le deboli infrastrutture del Libano non hanno retto a tale riversamento massiccio e le ripercussioni principali sono state il collasso del sistema scolastico e del mercato del lavoro. L’unica donna del governo, il giudice Alice Shabtini, avrà la guida del ministero ad hoc ma è chiamata a combattere l’emergenza non potendo disporre di dotazioni straordinarie al proprio budget.
Per tutti questi motivi, la comunità internazionale guarda con attenzione a quanto sta succedendo in Libano. Mercoledì scorso, mentre il premier Tammam Salam incontrava gli Alti rappresentanti ONU tra cui il gen. Paolo Serra, comandante della Forza UNIFIL, il leader di Courant du Futur Saad Hariri discuteva degli sviluppi nella regione con il generale al-Sisi, comandante in capo delle forze armate egiziane, ministro della Difesa e candidato alla presidenza egiziana. Nelle settimane precedenti Hariri aveva incontrato anche Sergej Lavrov, ministro degli Esteri di Putin. Se la Russia pare dunque riavvicinarsi ai sunniti, suoi nemici storici nel Paese, Hollande ha proposto il tema della stabilità nel Libano durante il vertice di febbraio con Obama. L’obiettivo francese è quello di creare un solido asse nella regione con i sauditi, approfittando del gelo tra Riad e Washington. In quest’ottica va vista la consistente dotazione franco-saudita di armi all’esercito libanese per tre miliardi di dollari. Si assisterà nei prossimi mesi al difficile tentativo di arginare un contagio già in atto, sia per vie interne che esterne. Ma la debolezza intrinseca del governo e i frammentati scenari geopolitici, uniti alla composizione del sistema politico-confessionale libanese, non fanno credere a alla riuscita di questa operazione.