di C. Alessandro Mauceri –
Tra le scuse utilizzate da Israele per non sedersi al tavolo delle trattative per una pace duratura c’è il mancato riconoscimento dello Stato palestinese.
Sono 150 su 193 i paesi dell’ONU che hanno riconosciuto la Palestina come Stato, tra gli ultimi, la Spagna, la Norvegia, l’Irlanda, la Slovenia e l’Armenia. Nella nota di Erevan si ribadisce che con questo riconoscimento si intende riaffermare “l’impegno nei confronti del diritto internazionale e dei principi di uguaglianza, sovranità e coesistenza pacifica dei popoli”, e che l’Armenia intende appoggiare la soluzione “due Stati” (Israele e Palestina) come “unico modo per assicurare che sia i palestinesi che gli israeliani possano realizzare le proprie legittime aspirazioni”. La dichiarazione apre con una descrizione della “catastrofica situazione umanitaria a Gaza”, definendola una delle “principali questioni dell’agenda politica internazionale che richiedono una soluzione”. Una nota giustificata dal fatto che le azioni di Israele dimostrano sempre di più ogni giorno che passa che quanto sta avvenendo non ha niente a che vedere con l’attacco terroristico del 7 ottobre scorso o con la volontà di liberare gli ostaggi ancora nelle mani di Hamas.
In febbraio il ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich ha preannunciato i piani per espandere gli insediamenti israeliani nella Cisgiordania occupata. Il 27 febbraio è stato approvata la realizzazione di un nuovo insediamento chiamato Mishmar Yehuda a Gush Etzion: “Continueremo lo slancio degli insediamenti in tutto il paese”, ha dichiarato in una nota il ministro. Un atteggiamento che ha riscontrato la forte contrarietà della comunità internazionale. Anche gli Stati Uniti d’America, per bocca del segretario di Stato Antony Blinken, hanno ribadito che gli insediamenti “sono incoerenti con il diritto internazionale. La nostra amministrazione mantiene una ferma opposizione all’espansione degli insediamenti”. La decisione di ampliare le colonie è solo l’ultimo passo di una politica che va avanti da decenni. Ben prima dell’attacco terroristico del 7 ottobre 2023. L’avvio del progetto di espansione (illegale) all’interno del territorio palestinese risalirebbe almeno al 1967 quando, alla fine dei combattimenti della Guerra dei Sei Giorni, Israele iniziò ad occupare la Cisgiordania. Un’azione che secondo l’ONU viola la convenzione di Ginevra del 1949, che Israele ha sottoscritto, la quale proibisce allo Stato occupante di trasferire civili nei territori occupati. Il governo israeliano ha cercato di giustificare questa decisione affermando la Convenzione non è valida perché quelli occupati non sono territori di un altro Stato: Israele considera la Cisgiordania un “territorio conteso” e non “occupato”.
Per porre fine a queste contese e impedire a Israele di cercare di giustificare i propri comportamenti, e di continuare a massacrare decine di migliaia di donne e bambini, basterebbe riconoscere lo Stato di Palestina e far sedere di nuovo i “due Stati” al tavolo delle trattative.
Purtroppo ad impedire che ciò avvenga non è solo l’ostinazione di Israele, parte in causa. Anche un piccolo gruppo di Stati si ostina a non voler riconoscere lo Stato di Palestina. Tra questi, sorprendentemente, anche l’Italia. Pochi giorni fa alla camera dei Deputati non è passata la proposta di riconoscere lo Stato di Palestina. La votazione ha impedito all’Italia di compiere l’unico passo che, forse, potrebbe portare alla fine del conflitto israelo/palestinese. La misura approvata è a favore di una “trattativa negoziale” per “sostenere nelle opportune sedi europee e internazionali iniziative finalizzate al riconoscimento dello Stato di Palestina nel quadro di una soluzione negoziata fondata sulla coesistenza di due Stati sovrani e democratici, che possano riconoscersi reciprocamente e vivere fianco a fianco in pace e sicurezza”. Ma niente riconoscimento dello Stato di Palestina. Anzi, nel corso della seduta pare che il governo abbia chiesto alle opposizioni di sostituire, nelle loro proposte, le parole “catastrofe umanitaria” con termini più blandi come “crisi umanitaria”. Dimenticando che su Israele sono in corso procedimenti per genocidio e per massacro di bambini.
Ormai sono pochi gli Stati non hanno riconosciuto lo Stato di Palestina. Oltre all’Italia ci sono gli Stati Uniti d’America, il Canada, l’Australia e diversi paesi dell’Unione Europea. Paesi per i quali, evidentemente, la priorità non è far cessare il massacro di innocenti. E nemmeno fa finire una guerra che va avanti ormai da più di mezzo secolo. Una guerra della quale sono stanchi anche molti israeliani: nei giorni scorsi, decine di migliaia di persone si sono radunate per protestare contro le politiche del governo, prima sotto la casa del presidente israeliano Benjamin Netanyahu, a Gerusalemme, e pochi giorni dopo davanti alla Knesset, il Parlamento israeliano. I manifestanti hanno chiesto nuove elezioni, un cessate-il-fuoco e un accordo per il rilascio degli ostaggi. È intervenuta la polizia per disperderli. Ma è stato un chiaro segnale che l’amministrazione ultraortodossa e nazionalista di Netanyahu non ha più l’appoggio di tutta la popolazione. Molte le divergenze anche con l’apparato militare, specie dopo la decisione di sciogliere il gabinetto di guerra, istituito a ottobre per coordinare la campagna militare nella Striscia. Tra le critiche anche quella che riguarda l’arruolamento degli ultraortodossi. Un disegno di legge permetterebbe di arruolare anche gli studenti religiosi. Ma il governo è diviso. Alcuni attivisti inoltre manifestano contro il disegno di legge presentato dall’Unione Nazionale degli Studenti Israeliani, che stabilisce che le istituzioni accademiche siano tenute a licenziare i docenti che incitano contro Israele, sostengono il terrorismo o “parlano apertamente in modi percepiti come neganti l’esistenza di Israele come Stato ebraico e democratico”.