Radicalismi

di Dario Rivolta * –

Per diversi anni ho avuto l’opportunità di viaggiare in molti Paesi arabi e notare come la società, soprattutto nelle città, si stesse secolarizzando. Il richiamo della religione come richiamo tradizionale era sempre presente ma sembrava contare sempre meno. Così come stava succedendo nel mondo cristiano i dettami religiosi erano rispettati in apparenza e in certe occasioni, ma nella vita reale di tutti i giorni si cominciava a farne a meno. Anche da noi la maggioranza dei neonati ha continuato ad essere battezzata, la maggior parte dei matrimoni a tenersi in chiesa e, se interrogati, quasi tutti avrebbero risposto di essere “un po’” religiosi, di credere in Gesù Cristo ma… Esattamente le stesse attitudini che si manifestavano nel mondo arabo musulmano: se richiesti, si autodefinivano credenti in Allah e il venerdì frequentavano le moschee ma bevevano alcool, seppur preferibilmente non in pubblico, e perfino il ramadan era diventato più un’occasione sociale che un sacrificio digiunatorio. Qualcosa di simile alle nostre feste natalizie.
Naturalmente, il fenomeno assumeva gradazioni differenti tra i vari Paesi arabi e permaneva, così come da noi, un certo divario di comportamento tra le città e le campagne. Per un osservatore curioso il fenomeno si mostrava più visibile in posti come la Tunisia, l’Algeria, la Siria, l’Iraq, la Giordania, la Libia e l’Egitto e meno visibile in luoghi come il Marocco, la Mauritania, gli Emirati. Dove era difficile cogliere segni di secolarizzazione (almeno fino a qualche anno fa) erano gli altri Stati del Golfo, probabilmente anche per la forte azione repressiva da parte delle istituzioni religiose e dei loro complici/alleati statali. Un caso a parte era il Paese islamico non arabo rappresentato dall’Iran. Qui la secolarizzazione era meno evidente ad un primo sguardo ma strisciante in tutta la società, e il fenomeno andava accrescendosi tanto più quanto le città erano grandi e lontane dalla capitale. Tuttavia, a dispetto degli ayatollah esisteva in Iran, e tuttora esiste, un florido mercato nero degli alcoolici, una prostituzione vestita da “matrimonio a tempo” e una crescente insofferenza nei confronti dei clerici. E’ bene notare che il mondo sciita, con le sue gerarchie e il potere temporale organizzato, è un po’ la controfaccia del sistema cattolico, mentre i sunniti (o almeno la loro forma più diffusa) sono più simili al mondo protestante. Ciò fatte salve le implicazioni politiche.Comunque sia, la secolarizzazione in cammino si poteva constatare in tutti i Paesi islamici.
Tutto ciò sino a qualche anno orsono.
Tornando oggi, in tutti quegli stessi Paesi il trend descritto sembrerebbe essersi invertito. Sta succedendo anche in gran parte del mondo occidentale e questo cambiamento è, probabilmente, il risultato non previsto della globalizzazione. L’immediato ed esteso contatto con culture diverse ha portato un’alta percentuale delle popolazioni a sentire aggredito il sentimento identitario derivante dal comune sentire sociale, dalle uguali abitudini e, soprattutto, dal venir meno dei collanti creati dall’affidamento a quelle che si considerano le proprie “tradizioni”.
In tutta Europa, anche grazie all’enorme aumento della presenza di popolazioni originariamente musulmane, sono nate reazioni alla Oriana Fallaci che hanno incoraggiato il pensiero di una netta contrapposizione tra un “noi” cristiani e un “loro” maomettani. Di fatto ributtando indietro chi tra loro, magari inavvertitamente, si stava avvicinando al nostro modo di pensare. Da un punto di vista intellettuale quell’atteggiamento è sfociato nel famoso libro di Samuel Huntington “Lo scontro delle civiltà” in cui si teorizzava il futuro del mondo come una inevitabile lotta senza quartiere tra una cultura cristiana e una musulmana, soprattutto araba. Che le religioni offrano la sponda a un fattore identitario non è né nuovo né insolito. Basta guardare alla Polonia per notare quanto il sentimento popolare dell’essere “cattolici” sia stato utile a distinguersi e contrapporsi ai russi “ortodossi”.
Di là dalle differenze puramente teologiche (per quanto non enormi, fatta salva la distinzione tra un monoteismo trinario e un monoteismo integrale) la separazione più importante tra cristiani e musulmani sta nel fatto che, grazie all’illuminismo e alla rivoluzione francese, da noi si è arrivati a considerare naturale ed essenziale la separazione tra Cesare e Cristo, mentre nel mondo islamico il potere politico e quello religioso debbono assolutamente coincidere. Non è un caso che nel mondo mussulmano, seppur non ovunque, la base del diritto sia ancora la Sharia, la legge religiosa che si vuole discendere dal Corano.
Di fatto, mentre da noi molte persone riscoprono i valori “assoluti” della religione attraverso una qualche forma di spiritualismo o di un confuso teismo, nel mondo arabo la riaffermazione di una propria identità ri-assume le vesti della religione tradizionale. Fatte le necessarie distinzioni, è il meccanismo che sta dietro le ribellioni e la non integrazione degli immigrati musulmani di seconda generazione presenti nei Paesi europei.
Un’ indagine del 2023, ed esattamente la quindicesima di quel genere condotta a Dubai da una locale società di pubbliche relazioni, ha rilevato che il 76% dei giovani degli Emirati si sentiva preoccupato della perdita dei valori tradizionali e culturali locali. Il 65% negli Emirati e il 72% nell’intero Golfo hanno risposto che è più importante conservare religione e tradizione anziché aspirare a una società tollerante, liberale e globalizzata. Il 73% di loro si è detta in disaccordo sul fatto che i valori religiosi impedissero il progresso del mondo arabo e il 66% addirittura richiedeva che le leggi del loro Paese dovessero basarsi sulla Sharia.
In merito alla necessità di riformare le proprie istituzioni religiose, mentre nel 2019 la pensavano necessaria il 79% degli intervistati, nel 2023 il loro numero è calato al 58%. Non è nemmeno raro sentire alcuni giovani arabi del Golfo affermare che i clerici dovrebbero avere una maggiore influenza sulle decisioni dei governi.
È difficile immagine come questi sentimenti possano conciliarsi con le riforme di Mohamed Bin Salman, prese o in via di assunzione, in Arabia Saudita. La forza della famiglia regnante di quel Paese arabo è basata, sin dalla sua nascita, su un compromesso tra il potere politico e i massini vertici del clero islamico fino a portare il primo a proclamarsi massimo rappresentante e diffusore nel mondo dell’interpretazione wahabita del Corano. Bin Salman è riuscito finora a procedere, seppur lentamente e con alcune contraddizioni, nel liberalizzare alcuni atteggiamenti repressivi dall’origine religiosa nei confronti delle donne e della vita familiare in genere. Ha aperto al turismo (e quindi alla visibilità per tutti i locali di stili di vita molto diversi) e recentemente l’Autorità Saudita del Turismo ha perfino annunciato (forse perfino esagerando nelle dichiarazioni) che i turisti LGBTQ saranno benvenuti nel Regno. Sulla una stessa via riformatrice si è indirizzato il leader degli Emirati, Mohamed Bin Zayed, che ha aperto anche a industrie dell’intrattenimento di tipo occidentale.
Quali saranno i prossimi sviluppi nel mondo arabo e cioè se gli intenti riformatori e modernizzanti potranno proseguire o se i giovani, sempre che non cambino opinioni crescendo, riusciranno a imporre un ritorno all’integralismo è tutto da vedere. Di certo, lo strisciante abbandono dell’atteggiamento liberale e democratico delle società occidentali a favore di un pensiero unico (non basato questa volta sulla tradizione ma su una presunta “scientificità”) difficilmente potrà continuare a essere un incoraggiante esempio per chi, in un mondo finora chiuso, voglia aprire alla libertà di pensiero e di comportamenti.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.