Ucraina: se è l’occidente a disinformare…

di Dario Rivolta *

Di una piacevole conversazione di alcuni anni fa con l’amico Sergio Stanzani Ghidini (un laico sincero, che dedicò tutta la sua vita alle battaglie del Partito Radicale), mi sono rimaste impresse alcune sue parole che suonavano come una parafrasi dello spirito filosofico di Piero Gobetti. Mi disse che un sistema liberale ottimale dovrebbe essere quello ove ciascuno rivesta fino in fondo il proprio ruolo e non si sostituisca a quello altrui: un sindacalista deve fare il sindacalista, l’imprenditore sia uomo d’azienda, il prete predichi onestamente e assista le anime, lo storico descriva dall’alto e senza passioni ciò di cui narra ecc.
Anche un analista di politica internazionale dovrebbe analizzare le situazioni senza farsi fuorviare da propagande del momento o da tifo da stadio. Durante questa crisi Ucraina, purtroppo, molti incompetenti si sono eretti ad “esperti” e molti (troppi) analisti solitamente molto professionali hanno dimenticato il loro compito e hanno giocato a fare i politici. In tempi di guerra è normale che tutte le parti combattenti diffondano notizie false ma utili ai propri fini e la cosa migliore per chi vuole veramente capire cosa e perché certe cose succedano sarebbe di studiarne la storia e considerare tutte le versioni disponibili. Proprio nel caso della guerra in Ucraina, quando la descrizione degli eventi fatta da moltissimi giornalisti (o pseudo tali) assume un carattere così fazioso da non lasciare nessuno spazio al dissenso, è importante che ci sia ancora qualcuno che voglia offrire punti di osservazione alternativi al mainstream. Un analista politico serio ha due compiti da offrire ai politici e all’opinione pubblica: narrare i fatti antecedenti e ove possibile immaginare gli sviluppi futuri. Ciò che non deve mai dimenticare è che il mondo reale non è manicheo ma piuttosto è Yin-Yang e che chi offre verità assolute, di certo, si sbaglia. Tutto ciò naturalmente facendo salva la buona fede.
Cominciamo con l’accusa lanciata dal presidente Usa Joe Biden verso il collega russo Vladimir Putin di essere un “criminale di guerra”. Se lo fosse davvero, lui o i suoi generali, sarebbe la storia a dircelo, forse, a guerra finita, quando si saranno sopiti i tentativi delle rispettive propagande. Per ora l’unica reazione che possono suscitare tali parole è che quello americano non è certo il pulpito migliore da cui lanciare la predica. Non è il caso di parlare di avvenimenti troppo lontani come l’aver raso al suolo intere città tedesche piene di abitanti durante la guerra mondiale, né delle atrocità commesse dai soldati americani in Vietnam. Di quelle cose Biden può essersi dimenticato per ragioni anagrafiche. È invece necessario ricordare il più recente bombardamento indiscriminato di Belgrado, gli assassinii di innocenti compiuti dai militari a stelle e strisce in Iraq e i milioni di morti “accidentali” in Afghanistan. Qualcuno ha mai enfatizzato che si trattò di “crimini di guerra”? Beh, anche volendolo, non sarebbe stato possibile sottoporli al giudizio del Tribunale Penale Internazionale poiché gli Stati Uniti hanno sempre rifiutato di aderirvi (anche la Russia non lo riconosce, mentre sono ben 123 gli Stati che lo hanno ratificato). Comunque sia, qualora si accertasse che Putin sia un criminale di guerra, chi lo processerebbe? Un tribunale di Chicago?
Passiamo oltre. I sostenitori senza dubbi dell’Ucraina “democratica” affermano spavaldamente che la Russia non ha alcun diritto di impedire una libera scelta del governo di Kiev dopo che questo ha deciso di aderire all’alleanza militare della NATO (lo hanno inserito nella loro Costituzione). Tanto meno, Mosca ha il diritto di far valere una sua “preoccupazione per la propria sicurezza”. Al contrario, se la Russia accettasse l’idea che i suoi vicini sono pienamente sovrani e liberi di decidere con chi allearsi non ci sarebbero mai stati problemi. Peccato che a Washington la pensino in questo modo solo quando la cosa riguarda altri. Mai se la cosa riguarda la “sicurezza” degli Stati Uniti. Escludiamo pure, per brevità e per attuale inverosimiglianza, l’ipotesi (seppur possa essere un ottimo esempio) di un Messico che voglia magari aderire ad un’alleanza con la Cina. Leggiamo invece un recentissimo Comunicato del Dipartimento della Difesa americano in merito alla possibilità che i cinesi possano aprire una loro base militare sulla costa dell’Africa occidentale. Badate bene, non vicino ai loro confini ma sull’altra costa dell’Atlantico distante migliaia di chilometri. In data 17 marzo scorso quel Dipartimento, in una nota ufficiale, ha evidenziato le parole del generale Stephen J. Towsend, comandante del Comando US-Africa: “Sono molto preoccupato in merito a questa base militare sulla costa Atlantica e dove loro sono più avanzati ad oggi è la Guinea Equatoriale”. Il Dipartimento aggiunge che quella base navale militare “minaccerebbe la sicurezza nazionale degli Stati Uniti”. Come risposta a quella “minaccia” per ora gli USA hanno mandato una delegazione “interagency” in quel Paese per discutere con il locale governo le preoccupazioni relative alla sicurezza americana. Se non riuscissero a convincerlo a recedere da quell’accordo cosa faranno? Una “rivoluzione arancione” oppure un semplice colpo di stato? L’esperienza in questo tipo di operazioni non manca. Ovviamente per noi che siamo parte dell’occidente la sicurezza degli Stati Uniti suona più importante della sicurezza dei russi, ma non sarebbe corretto cacciare la testa sotto la sabbia e far finta che le nostre siano le uniche preoccupazioni legittime. Se crediamo davvero che sia solo la garanzia per la nostra sicurezza a essere legittima potremmo trovarci poi a piangere sul latte versato. Esattamente come oggi succede in Ucraina.
Tuttavia qualcuno sostiene che quella che è in atto è una guerra tra la “democrazia” e l’”autoritarismo” e noi tutti ci dobbiamo battere contro quest’ultimo. Il ricorso a questa lettura sembra voler far rinascere la contrapposizione passata tra il “mondo libero” e il “comunismo”. In quel caso però era evidente, e perfino dichiarato, che ognuno dei due “blocchi” ambiva ad occupare gli spazi politici dell’altro nel panorama mondiale. Oggi la situazione è ben diversa: nemmeno la Cina, che pur sta espandendo i suoi artigli in tutti i continenti, sta imponendo, e nemmeno proponendo il proprio “sistema”. Il suo obiettivo è l’egemonia mondiale economica e politica ma dei “valori” altrui se ne fregano. Per la Russia il problema è ben lontano dal voler espandere la “russicità”, ma è piuttosto quello di ricostruire un “sentimento nazionale comune” al proprio interno e di dare una qualche modernità alla propria economia. La sua presenza, anche bellica, in teatri lontani dalla madrepatria è funzionale a voler recuperare un qualche ruolo politico internazionale (perduto oramai da tempo) che rispecchi la sua dimensione territoriale e le enormi risorse in suo possesso che sente minacciate da ambizioni economiche altrui. Di certo, prima o poi, dovranno fare i conti per questo anche con i cinesi. Comunque sia, ammettiamo che l’occidente stia solo battendosi per difendere i valori della democrazia liberale. Perché allora, nella sua recente conversazione telefonica con il cinese XI, Biden ha sottolineato che gli USA non hanno alcuna volontà di cambiare il “sistema” cinese e che (perfino) nemmeno sono interessati alla “indipendenza di Taiwan”? Qualcuno pensa che in Cina ci sia la democrazia liberale? O forse l’interesse per tale forma di governo fa parte della famosa “doppia morale”? Come la mettiamo con gli “amici” che da questi valori sono sempre stati lontani o se ne stanno allontanando? Turchia, Arabia Saudita, Polonia, Ungheria ecc. sono solo alcuni degli esempi. Li stiamo combattendo?
Arriviamo infine alle voci, da una parte e dall’altra, che accusano il nemico di atrocità, o perfino di sadismo, nell’uccisione di donne e bambini. I manichei accusano solo i russi di colpire scuole e perfino asili nido e i nostri media ci mostrano soltanto le distruzioni causate dai loro bombardamenti. Che ciò avvenga, propaganda permettendo, è probabile. Eppure, vogliamo tacere che nei precedenti sette anni di guerra nel Donbass sono morte 13mila persone e che a causare quelle morti furono (e sono oggi) bombe dell’esercito ucraino? Oppure pensiamo che i morti di quella regione si siano tutti suicidati? Perché in occidente nessuno lo ha documentato o vi ha dato una qualche importanza?
La realtà è che ogni guerra, chiunque sia a sparare, porta morti e distruzioni ed è per questo che il mondo di oggi la aborre. Quando si spara non ci sono i buoni e i cattivi: sono tutti criminali.
Chiudo citando un’osservazione di un giornalista abituato, come inviato sul posto, ad assistere a tanti eventi di guerra. È Toni Capuozzo, che si esprime su quello che gli ucraini han comunicato al mondo in merito all’assedio di Kiev: “L’assedio di Kiev, di cui non si vantano i russi ma di cui si lamentano gli ucraini, che assedio è se i leader di Slovenia, Repubblica Ceca e Polonia arrivano in città in treno? Se funzionano i telefonini e c’è acqua e corrente elettrica? È il primo assedio soft della mia vita”. Ecco qualcuno che cerca di pensare con un po’ di obiettività, senza ascoltare soltanto la propaganda.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.