CAUCASO. Ucciso imam in Daghestan, sempre più guerra religione

TMNews, 30 ott 12 – 

Il conflitto in Daghestan assume sempre più i contorni di una guerra di religione. Oggi il ministero degli Interni di questa martoriata repubblica del Caucaso russo, vicina alla Cecenia, ha reso noto che un imam e due suoi familiari sono stati assassinati a colpi d’ama da fuoco. S’allunga così la serie di esponenti religiosi di diversa tradizione che sono stati ammazzati in un’escalation sempre meno controllabile. “Sconosciuti armati hanno aperto il fuoco sull’auto dell’imam Kalimulla Ibraguimov mentre si dirigeva con due familiari alla preghiera del mattino”, alla moschea di Derbent (sud), ha dichiarato un portavoce del ministero, Fatina Oubaidatova, senza aggiungere ulteriori dettagli. Gli altri due familiari uccisi sono il padre dell’imam e un fratello. Ibraguimov aveva 49 anni e, secondo una fonte della polizia locale, non era un imam riconosciuto, ovvero registrato dalle autorità. Il quotidiano ufficiale Rossiiskaia Gazeta, dal canto suo, rivela che “professava un Islam di tipo wahhabita”, che è quella concezione del credo musulmano salafita originata nella Penisola arabica e considerata più radicale. Si tratta della stessa variante professata dai membri di al Qaida e dai ribelli ceceni.In agosto saltò in aria il numero uno dell’Islam sufi locale. L’Islam wahhabita è minoritario in Daghestan, dove invece è molto forte la tradizione sufi. E l’aggettivo “wahhabita” a quelle latitudini è considerato sinonimo di “terrorista” dalle autorità che, in passato, non si sono fatte scrupolo di avviare delle dure campagne di repressione di questa visione dell’Islam e di chi la propugnava. Il Daghestan è una delle più instabili repubbliche del Caucaso russo. Negli ultimi anni la ribellione, legata alle guerre cecene degli anni ’90, si è sempre più islamizzata e le frizioni con il sufismo locale sono diventate fatti all’ordine del giorno. Nell’ultimo anno sono stati assassinati due importanti esponenti della tradizione sufi. Un anno fa è stato ucciso uno sheikh daghestano molto influente, Sairajuddin Isfrailov (Khuriksky). Isfrailov era considerato il numero due del sufismo daghestano e apparteneva al popolo Tabarasan, che conta 140mila anime. Era noto per aver fondato una miriade di madrassa, le scuole islamiche, nel Sud del paese, dove era un’assoluta autorità. E’ stato ucciso nella stessa città, Derbent, in cui è morto Ibraguimov. Allora il governo puntò nettamente il dito contro i wahhabiti. Ma il fatto più scioccante è quello avvenuto ad agosto, quando un’attentatrice suicida s’è fatta saltare in aria uccidendo il più influente degli sheikh del Daghestan, Said Afandi al Chirkavi, il teologo più importante della regione, e sei dei suoi allievi.Da un punto di vista religioso, le due tradizioni sono divise sulla la figura dello “sheikh”, che non è tanto un leader tribale come nella tradizione araba, ma un maestro dai connotati del santo. Una fugura che l’ultraortodossia salafita vede con profondo sospetto. Da un punto di vista squisitamente politico, invece, la distinzione è nel rappporto col governo. Gli sheikh e i religiosi sufi del Daghestan sono interlocutori del governo, che li ha anche utilizzati nella propaganda e nella campagna contro i wahhabiti. Tutto ciò sta producendo da tempo una scia di sangue ormai risalta anche nell’endemica instabilità daghestana. Nel 1998 è stato ucciso il mufti Said Muhammad Haji Abubakarov, nel 2007 il vice mufti Kurmagomed Ramazanov. Nel 2009 un altro vice mufti, Ahmad Tagaev, ha trovato la morte. Così tanti imam di villaggio. Le clamorose uccisioni degli ultimi mesi rappresentano una vera e propria escalation. Quando al Chirkavi è stato ucciso, diversi osservatori valutarono che le tendenze, pure esistenti, a cercare una trattativa con i wahhabiti si sarebbero esaurite: il sangue si sarebbe riversato su di loro.Da un punto di vista religioso, le due tradizioni sono divise sulla la figura dello “sheikh”, che non è tanto un leader tribale come nella tradizione araba, ma un maestro dai connotati del santo. Una fugura che l’ultraortodossia salafita vede con profondo sospetto. Da un punto di vista squisitamente politico, invece, la distinzione è nel rappporto col governo. Gli sheikh e i religiosi sufi del Daghestan sono interlocutori del governo, che li ha anche utilizzati nella propaganda e nella campagna contro i wahhabiti. Tutto ciò sta producendo da tempo una scia di sangue ormai risalta anche nell’endemica instabilità daghestana. Nel 1998 è stato ucciso il mufti Said Muhammad Haji Abubakarov, nel 2007 il vice mufti Kurmagomed Ramazanov. Nel 2009 un altro vice mufti, Ahmad Tagaev, ha trovato la morte. Così tanti imam di villaggio. Le clamorose uccisioni degli ultimi mesi rappresentano una vera e propria escalation. Quando al Chirkavi è stato ucciso, diversi osservatori valutarono che le tendenze, pure esistenti, a cercare una trattativa con i wahhabiti si sarebbero esaurite: il sangue si sarebbe riversato su di loro.