Cina. Con ripresa debole, patto sociale in pericolo?

di Francesco Giappichini –

Qual è la salute dell’economia della Cina, dopo la contestata strategia «zero covid» attuata dal Partito Comunista cinese (Pcc)? E’ difficile rispondere, poiché gli indicatori sono contraddittori, e mostrano un’inedita volatilità. Da un lato i segnali di una risalita del PIL (prodotto interno lordo) sono evidenti. I documenti presentati in marzo dal Pcc formulavano una stima, all’epoca giudicata prudente: l’economia dovrebbe crescere quest’anno del cinque per cento. Inoltre i dati del primo trimestre ’23, forniti dal National Bureau of statistics of China (Nbs), sembrano avvalorare questa tendenza positiva: il PIL è, infatti, cresciuto del 4,5%, (la variazione congiunturale si attesta invece al 2,2).
Dall’altro lato però altri numeri, anche più recenti, ci mostrano che siamo innanzi a una ripresa fragile e incostante. Ed emergono dei segnali, in primis quelli sulla disoccupazione giovanile, che possono prefigurare rischi per la stabilità politica: scenari peraltro delineati anche da autorevoli think tank, come l’Etudes économiques du Crédit agricole. Andiamo però con ordine. In primo luogo, in maggio, ha deluso le attese, l’indice pmi (purchasing managers index) manifatturiero ufficiale Nbs (National Bureau of statistics), che è sceso a quota 48,8, dopo il 49,2 di aprile. Il dato annuncia un andamento della produzione industriale più modesto, rispetto all’epoca pre-Covid.
Inoltre emerge un’economia dipendente dal commercio internazionale, per di più in un panorama dominato dal calo dell’export verso Stati Uniti e Unione europea, (le esportazioni verso gli altri Paesi asiatici sono invece in aumento). Più in particolare, in maggio, l’export, leva fondamentale per la crescita del Paese, ha fatto registrare una flessione considerevole, pari al 7,5% su base annua, (un dato in controtendenza rispetto ai buoni risultati di marzo e aprile). Insomma, vuoi per le minacce di recessione che incombono sull’occidente, o per l’inflazione galoppante nel mondo, la domanda globale di prodotti cinesi appare indebolita. Anche le importazioni hanno mostrato debolezza, penalizzate dalla fragilità della ripresa, e più nello specifico dalle difficoltà nel settore edilizio.
Beninteso, la bilancia commerciale cinese continua a preservare un surplus commerciale gigantesco, che è la risultante della posizione dominante di Pechino in molte catene del valore. Tuttavia altri campanelli di allarme non mancano, e vanno dal calo di fiducia dei consumatori, alle citate difficoltà del comparto delle costruzioni, passando per la flessione del tasso di crescita, relativo ai prestiti bancari. Soprattutto però, come fatto notare dalla citata ricerca dell’Etudes économiques du Crédit agricole, a spaventare è il parametro della disoccupazione giovanile: in aprile, il tasso ha superato quota 20%, ha doppiato il dato del ’19, e dovrebbe ancora aumentare, (il picco si registra in genere ad agosto, quando i neolaureati entrano nel mondo del lavoro). E se è vero che il fenomeno rappresenta una delle maggiori preoccupazioni anche nei Paesi industrializzati, come in Italia, è altrettanto vero che il modello sociale cinese, il social contract implicitamente stipulato tra governo e popolazione, si basa sul costante miglioramento delle condizioni di vita per le generazioni future; e in particolare per i figli unici, laureati e residenti nei centri urbani, per i quali i sacrifici economici fatti dai genitori, sono stati enormi. Di qui il pericolo di una destabilizzazione anche politica.