Cina. Non è solo questione di Pil

di Francesco Giappichini

Il rallentamento dell’economia cinese non è descritto solo dall’insoddisfacente crescita del prodotto interno lordo (Pil). Sono rilevanti anche i modesti numeri dell’import-export, su cui pesano le tensioni geopolitiche, e i cupi dati che descrivono le dinamiche demografiche: per il secondo anno consecutivo la Cina ha perso abitanti. Il calo ha superato i due milioni, più del doppio rispetto al -850mila del ’22. Senza considerare il nebuloso “clima degli affari”, che molti analisti hanno toccato con mano al recente World economic forum (Wef) di Davos. E forse neppure tutto ciò è sufficiente, per avere il polso dell’economia del Dragone, del suo appannamento e della sua crisi.
Ormai i media internazionali si dilettano a sviscerare il nuovo “chinese dream”, il “sogno cinese”, così come reinterpretato dalle giovani generazioni colpite dalla disoccupazione. A questo proposito hanno destato interesse le parole dell’antropologo Xiang Biao, professore di Antropologia sociale presso l’Università di Oxford e direttore del Max Planck institute for social anthropology. A suo dire, è in atto una rivoluzione nelle menti della Generazione Z: “Per tutta la vita, i giovani sono stati condizionati dall’idea che se studi molto, alla fine del tuo duro impegno ti aspetteranno un lavoro e una vita dignitosa e ben pagata. Oggi vedono che questa promessa non viene più mantenuta”.
Andiamo però con ordine cominciando dal Pil, che nel ’23 è cresciuto solo del 5,2 per cento, e va detto che per il ’24 la Banca mondiale prevede un dato ancor più misero, pari al 4,5, mentre l’Accademia cinese delle scienze propende per un più incoraggiante 5,3. Si tratterebbe del tasso più modesto dai tempi del “massacro di piazza Tienanmen”, se non vi fosse stata la paralisi economica legata alla pandemia. Ciò sta lì a dimostrare che la revoca delle draconiane politiche “zero Covid” non ha saputo innescare la ripresa. E a poco sono servite le rassicurazioni del primo ministro Li Qiang, in carica da marzo ’23, nel corso dell’ultimo Forum economico mondiale. Questi ha rimarcato il raggiungimento dell’obiettivo preannunciato dalle autorità, che tuttavia era giudicato dagli osservatori molto modesto, se non altro perché il ’22 fu segnato da molteplici lockdown.
In molti puntano così il dito sull’aggravamento della crisi immobiliare, che mina la fiducia dei consumatori e trascina con sé altri comparti. Del resto il settore immobiliare contribuisce a circa il 30% del Pil, e al 20% dei posti di lavoro. Non solo: il 70% della ricchezza delle famiglie è rappresentata dalla casa, e si possono dunque ben comprendere gli effetti dei cali generalizzati delle quotazioni immobiliari. A completare lo scenario, la debole crescita dei redditi, l’elevata disoccupazione (quella giovanile è a quota 14,9%), l’indebitamento di piccole banche, enti locali e imprese, incapaci così d’investire, e l’insufficiente produttività.
In sostanza le autorità centrali sono incapaci di trasformare il modello economico, in modo che riesca a poggiare essenzialmente sui consumi interni. La propensione al risparmio è infatti eccessiva, causa la sfiducia della popolazione, una protezione sociale insufficiente, e l’inconsistenza delle politiche a sostegno della domanda.
La situazione non è rosea neppure sul fronte delle esportazioni, una leva fondamentale per la crescita: si sono contratte nel ’23 del 4,6%, registrando il primo calo dal 2016. Le stesse importazioni sono diminuite del 5,5 per cento.