a cura di Gianluca Vivacqua –
Se diamo uno sguardo all’atlante internazionale delle crisi scopriamo che più della metà delle guerre attualmente in corso nel mondo sono in realtà guerre civili: è un fatto che i conflitti, spesso pluriennali, tra eserciti regolari e paramilitari ribelli o tra gruppi etnici contrapposti sono di gran lunga più numerosi delle guerre di conquista/annessione. Guerre civili sono o sono state anche quelle in Sudan e in Sud Sudan, lo Stato nato da una costola del primo nel non lontano 2011. Proprio del Sud Sudan parliamo con l’africanista Sara de Simone (Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa), che a esso ha dedicato molto del suo impegno accademico e anche come consulente di ong. Di Sud Sudan e del suo “fratello maggiore” la de Simone si è anche occupata come analista per l’Ispi dal 2016 al 2023.
– Il Sud Sudan: un’antica vocazione all’indipendenza?
“La vocazione all’indipendenza del Sud Sudan va fatta risalire alla sua storia di dominazione coloniale, una dominazione che si è articolata su più livelli. Il Sudan è stato infatti colonia britannica, ma amministrato attraverso una particolare forma di governo che ha preso il nome di condominio Anglo-Egiziano e il cui quartier generale si trovava al Cairo. Per questioni di prossimità geografica ed affinità linguistica e culturale, l’élite arabo-musulmana della valle del Nilo, nell’area centrale dell’attuale Sudan, è stata cooptata nel funzionamento dello stato coloniale e ha poi “ereditato” il governo del Sudan post-indipendenza. Le altre regioni sudanesi, il Sud in primis ma anche il Darfur e le regioni dell’Est, erano state amministrate in gran parte attraverso il cosiddetto governo indiretto, largamente praticato nell’impero britannico come forma di controllo a basso costo delle popolazioni native dei territori sottoposti a dominio coloniale, e basato sulla cooptazione di capi locali che diventavano ufficialmente gli intermediari del governo britannico.
Al momento dell’indipendenza, come dicevo, l’élite arabo musulmana ha ereditato lo stato sudanese e promosso un progetto di nation-building centralizzato e fondato sull’arabizzazione e l’islamizzazione di tutte le popolazioni sudanesi, escludendo forme di governo che lasciassero una maggiore autonomia alle regioni periferiche o che promuovessero una qualche forma di redistribuzione della ricchezza. È da questa storia che hanno avuto origine le guerre tra Nord e Sud Sudan, la prima delle quali comincia addirittura un anno prima dell’indipendenza, nel 1955. Queste guerre si sono protratte per quasi mezzo secolo, con solo una breve parentesi di pace negli anni ’70. Nel 2005, con la firma del Comprehensive Peace Agreement (più semplicemente accordo di Naivasha, ndr) tra il governo di Khartoum e il movimento ribelle Sudan People’s Liberation Army, si è aperta la strada all’indipendenza del Sud Sudan. Nonostante la presenza ancora oggi di numerose aree contestate, il confine ufficiale tra Sudan e Sud Sudan ricalca quello stabilito in epoca coloniale tra le regioni amministrate attraverso la Native Administration (il governo indiretto) e quelle a presenza coloniale più diretta”.
– Ci fa un breve profilo di Salva Kiir, il presidente col cappello nero da cowboy?
“Salva Kiir interpreta il potere in quello stile carismatico e autoritario che è comune agli altri capi di Stato e di governo africani arrivati al potere attraverso guerre di liberazione. Ex ufficiale dell’SPLA, aveva posizioni più apertamente a favore dell’indipendenza del Sud Sudan anche quando il leader storico del movimento, il comandante John Garang de Mabior, dichiarava di combattere per un Nuovo Sudan unito, inclusivo e democratico. Dopo la morte di Garang in circostanze mai del tutto chiarite a poche settimane dalla firma del Comprehensive Peace Agreement, Salva Kiir fu nominato dall’ala politica del movimento (Sudan People’s Liberation Movement) come suo successore alla vice-presidenza del governo transitorio di unità nazionale a Khartoum, e come presidente del governo regionale del Sud Sudan. Con il sostegno della maggioranza dell’establishment dell’SPLM, Salva Kiir concentrò le sue energie sull’implementazione dell’accordo di pace con l’obiettivo ultimo non di riformare il Sudan nel suo complesso, ma di ottenere l’indipendenza del Sud. Allo scopo di mantenere la situazione sufficientemente stabile sul versante della sicurezza, Kiir adottò quella che è stata definita la “politica della grande tenda”, finalizzata a cooptare nell’apparato politico e militare ogni potenziale oppositore che potesse far deragliare il processo di pace. Il rovescio della medaglia è stato però quello di dar vita a una classe dirigente per molti aspetti improvvisata e quindi impreparata ad affrontare le enormi sfide del Paese”.
– Dopo l’indipendenza, il Sud Sudan fu devastato da una sanguinosa guerra civile protrattasi dal 2013 al 2018: quali le conseguenze del conflitto con cui il Paese deve fare i conti ancora oggi?
“Oltre a quelle legate alla situazione umanitaria in un paese con indicatori di sviluppo umano estremamente negativi, una delle conseguenze destinate ad avere ripercussioni a lungo termine è stata la formazione, nel 2020, di un governo di emergenza tanto elefantiaco quanto litigioso e dunque incapace, imbrigliato com’è entro dinamiche di potere, di focalizzarsi sulle tante questioni sociali del Paese. L’enorme attenzione posta sulle dinamiche di spartizione del potere politico a livello nazionale mette in ombra tutta una serie di problematiche molto locali (che includono l’accesso alla terra e la sua proprietà; la gestione a livello locale dei proventi derivanti dallo sfruttamento delle risorse naturali, in primis il petrolio; l’accesso della popolazione, in larga parte rurale, ai servizi di base) che restano esplosive e che sono il vero motore della violenza armata che continua a imperversare in molte aree del paese. Anche i dibattiti in vista dell’organizzazione delle elezioni, previste a dicembre 2024 dall’accordo di pace del 2018 che ha posto fine alla guerra civile tra il governo del Sud Sudan e il movimento ribelle guidato da Riek Machar (attuale vice-presidente), si concentrano sugli equilibri politici nazionali e non sembrano per il momento affrontare questi temi, che sono però destinati inesorabilmente a riemergere”.