Egitto. Perché non è colpo di Stato

di Enrico Oliari –

morsi mohamedColpo di Stato o svolta libertaria che sia stata, l’unica cosa che in questi giorni sta governando l’Egitto è l’incertezza, ovvero l’incognita di cosa possa succedere domani, anche se qualcuno, i militari o il nuovo governo a guida Hazem el-Beblawi, riusciranno a prendere in mano la situazione ed a riportare il paese nei limiti dell’ordine.
Qualche esperto di analisi geopolitica ha parlato di “punto di non ritorno” ormai superato, qualcun altro ha già preventivato anni perché la situazione nel paese si normalizzi, comunque solo dopo che i gravi episodi di violenza di questi giorni saranno dimenticati e le relative vendette si saranno consumate.
L’uragano che ha investito e distrutto l’Egitto, non è, tuttavia, partito il 30 giugno scorso, quando il movimento Tamarrod (Ribellione), forte delle 22 milioni di firme raccolte, ha chiamato in piazza una moltitudine di egiziani, dai laico-liberali del Premio Nobel Mohammed el-Baradei ai salafiti. Ha semmai avuto origine dagli errori dello stesso presidente Mohammed Morsi, il Fratello Musulmano che è succeduto al dittatore Hosni Mubarak: vigoroso e ben piantato nell’aspetto, Morsi ha sopravvalutato la portata del proprio risultato elettorale fino a non comprendere che la Rivoluzione del 2011 aveva come significato che l’Egitto è di tutti, non solo dei laici, come avveniva prima, ma neppure solo degli islamici, come ha cercato di fare il suo governo secondo un processo graduale ma costante di islamizzazione del paese.
Ed è per questo motivo che è sbagliato riferirsi a quanto avvenuto in questi giorni in Egitto come ad un colpo di Stato: il passaggio da una dittatura laica ad un’altra religiosa, è il fallimento della Primavera araba. Certo, la democrazia è sacra, ma lo è anche il principio della libertà inteso come fondamento dello Stato. Democrazia non significa fare quello che vuole la maggioranza, bensì trovare la quadratura del cerchio, perché tutti siano rispettati nelle proprie individualità, altrimenti le moschee che oggi vengono innalzate dovrebbero essere abbattute un domani, nel momento in cui i partiti islamici perdono le elezioni.
Nell’Egitto di Morsi sono cresciuti invece gli episodi di discriminazione sul lavoro e nella vita sociale, ad esempio, nei confronti dei cristiani, e persino chi non crede è stato percepito come un nemico dello Stato.
Pensare ad un paese confessionale (ma questo vale anche per la Turchia di Erdogan) nell’epoca della comunicazione di massa, in cui persino i costumi vengono globalizzati, è un controsenso: ne sanno qualcosa i dittatori deposti nel Nordafrica e nel Medio Oriente, dal momento che le idee e gli slogan sono corsi prima di tutto sui tablett e sugli smatrphone, in modo del tutto incontrollabile, veloce e libero… peccato che ci sia chi, come Morsi, non abbia imparato la lezione e compreso che la democrazia, oggi, passa anche da lì.
Così da giorni in Egitto imponenti cortei di pro o contro Morsi invadono le città fino ad arrivare a scontri violenti, con decine e decine di morti. E siccome il presidente della Repubblica si è rifiutato di dialogare con le piazze, il capo delle Forze armate e ministro della Difesa, generale Abdel Fattah al-Sissi, ha preso in mano la situazione, ha in un primo momento arrestato e poi deposto presidente della Repubblica, ha sospeso la Costituzione ed ha annunciato una “road map” che prevedeva un governo di tecnocrati e di riforme radicali per arrivare a nuove elezioni.
Il resto è la cronaca di questi giorni, con l’esercito schierato in tutto il paese ed incidenti continui anche gravi, come l’assalto alla caserma della Guardia repubblicana di lunedì scorso, quando l’esercito ha sparato contro un sit-in non proprio pacifico di Fratelli Musulmani che circondava l’edificio, azione che ha portato a 51 morti, 430 feriti ed oltre 600 arresti.
Il 4 luglio il giudice della Corte costituzionale, Adly Mansour, ha giurato come presidente della Repubblica ad interim, il 9 luglio, dopo il ritiro delle candidature di Mohammed el-Baradei e dell’economista Ziad Bahaa el-Din, entrambi invisi ai Fratelli Musulmani in quanto ritenuti troppo vicini all’Occidente, Mansour ha sciolto le riserve ed ha nominato alla carica di Primo ministro l’ex vicepremier egiziano e ministro delle Finanze, Hazem el-Beblawi, il quale subito si è dato da fare per nominare un governo il più inclusivo possibile nell’ottica della riappacificazione e della stabilizzazione del paese.
Il partito salafita “Nour”, come anche i militari, vorrebbero un governo di tecnici ed ha comunicato  che sarà presente alle consultazioni per la formazione del governo di coalizione, anche se “non parteciperemo nel governo transitorio” ed ha quindi “invitato tutti i partiti a non prendere parte alla spartizione delle cariche fino a quando non si sarà alleggerita la pressione della strada”.
Più duri i Fratelli Musulmani, i quali hanno fatto sapere attraverso il loro portavoce, Tareq al-Morsi, di non voler “trattare con i golpisti: respingiamo qualunque cosa arrivi da questo colpo di Stato”.
Sono quindi gli stessi Fratelli Musulmani a non voler sentir ragione e a respingere l’idea che Morsi abbia fallito sotto ogni profilo, da quello politico, a quello amministrativo, a quello economico. Eppure nel suo ultimo intervento rivolto alla nazione, a manifestazioni iniziate, il presidente egiziano ha ammesso di aver sbagliato su “molte cose” nel primo anno in ufficio, anche se ha avuto “ragione” su alcune questioni. Un risultato minimo per chi deve amministrare 80 milioni di egiziani alla prese con la crisi economica, la disoccupazione e l’incertezza per il proprio futuro.