Etiopia. Tigrè, gli scogli del dopoguerra

di Francesco Giappichini

Amnesty International (Ai) ha pubblicato il rapporto sulla conclusione della Guerra del Tigrè: il conflitto che ha opposto il governo federale etiope – sostenuto dall’esercito eritreo – alle autorità ribelli del Tigray. Un documento che certifica la scarsa tenuta dell’“Accordo di pace tra Etiopia e Fronte popolare di liberazione del Tigrè”. Ossia l’Accordo di Pretoria, che è entrato in vigore il 3 novembre ’22 (dopo due anni di conflitto), è stato raggiunto grazie alla mediazione dell’Unione africana (Ua), e che secondo i più critici, si limita a fotografare la sconfitta militare, sul campo, della Regione dei Tigrè e del Fronte popolare di liberazione del Tigrè.
Ebbene, secondo l’organizzazione non governativa, i soldati eritrei hanno commesso crimini di guerra anche dopo l’accordo, mentre «l’ostinata resistenza del governo etiope alle» indagini, sta «ostacolando la giustizia per i crimini e le violazioni dei diritti umani, commessi dalle forze eritree». Beninteso, il conflitto nel Nord dell’Etiopia è stato segnato da tante atrocità, compiute da tutti i belligeranti. Tuttavia Amnesty punta il dito soprattutto contro le «Forze di difesa eritree», che nel Tigrai «hanno commesso crimini di guerra e forse crimini contro l’umanità» sino al ritiro del 19 gennaio. Il rapporto Ai ha anche il merito di riportare sotto i riflettori la catastrofe umanitaria.
I cui numeri sono colossali: le vittime (comprese le indirette) raggiungerebbero la cifra monstre di 800mila; sette milioni di persone necessitano di assistenza umanitaria urgente; due milioni sono gli sfollati interni, che si sommano ai rifugiati nei Paesi vicini. Un panorama aggravato dallo scarso rispetto del “cessate il fuoco” di novembre: gli episodi di violenza nelle zone contese si sommano a problemi di accesso umanitario. Né aiuta la soluzione della crisi, la divisione della comunità internazionale rispetto all’identificazione dei principali responsabili del conflitto etiope-tigrino: la politica accentratrice del primo ministro e premio Nobel per la Pace 2019, Abiy Ahmed Ali?
E quindi l’esclusione del Tigrè dal processo di riforma nazionale, anche attraverso un pretestuoso rinvio delle elezioni? O all’opposto le istanze autonomiste del Tigray people’s liberation front (Tplf), e la sua sfida alle autorità federali? E dunque l’organizzazione di elezioni regionali non autorizzate, e l’attacco alle basi federali? Se Cina e Russia hanno sostenuto in toto Addis Abeba (del resto per Pechino il principio di non ingerenza è un totem), l’occidente è stato molto critico verso la controffensiva del governo centrale, (pur rimarcando una neutralità di principio). Washington e Bruxelles hanno così sospeso gli aiuti o gli accordi privilegiati, per una riedizione, ora in salsa etiope, della nota contrapposizione «the West versus the rest», “l’occidente contro tutti”. Sullo scenario gravano poi le influenze dei Paesi limitrofi: a cominciare da un’Eritrea schiacciata dal regime del dittatore Isaias Afewerki. Si è già scritto dell’alleanza Addis Abeba – Asmara, motivata dal comune interesse a contrastare il Tpfl, e del sanguinoso coinvolgimento dell’Eritrean defence forces (Edf). E poi sullo sfondo, a complicare le cose, la storica emarginazione dell’etnia maggioritaria oromo – cui appartiene il premier – la quale si considera vessata della posizione dominante dei tigrini. I quali, secondo una certa narrazione, avrebbero per decenni occupato la “stanza dei bottoni”, nonostante siano un gruppo minoritario.