Gaza. L’irresistibile persuasività delle bombe

L'attacco israeliano a Gaza, oltre a consegnarci immagini sempre più brutali e dolorose, ci obbliga ad una riflessione di più ampio respiro sui conflitti e sul loro racconto.

di Eugenio Lanza

Israele bombarda una scuola e due ambulanze a Gaza. Uccisi gli individui più deboli sul territorio palestinese: i feriti e gli sfollati
In pratica, la definizione di terrorismo. Sic et simpliciter.
Incredulità, dolore, rabbia: questi i sentimenti che hanno pervaso le nostre coscienze nelle ore successive alla carneficina. A qualche giorno di distanza, però, i tempi sono forse maturi per una riflessione più strutturata.
Dopo averci raccontato che i tagliagole di Hamas fossero rintanati in lunghi tunnel sotterranei, al fine di giustificare l’invasione di terra, sembra che nella scorsa settimana siano pervenute all’IDF nuove informazioni sulla posizione del nemico. Alcuni miliziani si sarebbero infatti nascosti nei mezzi di soccorso dell’ospedale di Shifa, altri ancora nel campo profughi di Jabalia, all’estremo Nord di Gaza. Di qui le “ragioni” per i bombardamenti e la conseguente strage di civili.
Bugie, menzogne, falsità.
Raccontate senza posa e senza vergogna, per umiliare le vittime più che per giustificare i massacri, nella certezza che nessuno mai si opporrà a questa barbarie. Il mondo occidentale, che fino a pochi mesi fa inorridiva per la guerra in Ucraina, si riscopre afono difronte a violazioni del diritto internazionale così plastiche e manifeste. Quasi nessuna voce si alza per denunciare tali crimini. Soprattutto, ça va sans dire, nessuno interviene in difesa del Paese aggredito, invaso, e da decenni illegalmente occupato. Ed è proprio nella dissonanza tra questo approccio e quello adottato venti mesi fa che si sostanzia il nocciolo della questione. Essa ci ricorda che sono solo gli interessi dei vari attori coinvolti, ed i loro reciproci rapporti di forza, a determinare le dinamiche globali e le azioni belliche. Stop. La diplomazia ed il diritto? Parole vuote, invocate a giorni alterni, ad uso e consumo dei signori della guerra.
La geopolitica non è mai stata tanto viva quanto oggi.
Emblematica, in questo senso, la reazione di Tel Aviv alle parole di António Guterres (segretario generale delle Nazioni Unite), reo di aver fatto presente al mondo che il conflitto in Palestina non è cominciato il 7 ottobre scorso. Dopo aver attaccato frontalmente il diplomatico lusitano, infatti, è stato negato a tutti i funzionari dell’ONU il visto d’ingresso per il Paese. Insomma, vanno bene la diplomazia e il confronto politico, ma occhio a non prenderli troppo sul serio!
A tal proposito, emerge cristallina anche la forte discrasia tra la narrazione del suddetto attacco russo all’Ucraina e il racconto dei fatti di Gaza. Con una grande semplificazione della realtà, ed applicando gli schematismi tipici dei media mainstream, potremmo asserire che si tratta di due vicende tutto sommato simili: c’è uno Stato sovrano, carnefice, che invade illegalmente il territorio di un altro Paese, vittima. Tuttavia, se nel febbraio del 2022 questi ruoli erano mostrati in maniera netta e ben delineata, nell’autunno del 2023 essi divengono magicamente molto più sfumati, come se il manuale di diritto internazionale fosse stato scordato fuori dalla redazione. La lente puntata sui conflitti si è evidentemente fatta un po’ opaca, tanto che quasi non si riesce più a inquadrare la dicotomia invaso-invasore, un tempo tanto cara a tutti gli opinionisti di questa parte del mondo.
Due sono però le costanti rimaste immutate in questo anno e mezzo. In primo luogo, abbiamo l’evergreen delle domande a risposta chiusa, rivolte alle persone per poter consegnare loro la patente di interlocutore legittimo. Del tipo: “Lei condanna Hamas/la Russia?”. L’adesione a banali e riduttive formulette ideologiche, imposte come conditio sine qua non per poter partecipare al dibattito, è purtroppo un meccanismo che sembra non passare mai di moda. In secundis, permane la tendenza a scattare una fotografia del conflitto nell’istante in cui esso ha vissuto la sua ultima deflagrazione, e a fissarla intensamente senza lasciarsi distrarre da altro. Chiunque provi ad indagare più a fondo le ragioni dello stesso, magari volgendo uno sguardo anche al passato, è immediatamente censurato. La storia è espulsa con sdegno da tutti i salotti televisivi, perché rischia di distogliere lo sguardo da questa ipnotica polaroid. E d’accordo che Cicerone sosteneva tale disciplina essere maestra di vita, però a forza di coltivarla si rischia di sviluppare del pensiero critico o finanche eterodosso, e con delle guerre in atto non possiamo proprio permettercelo!
Essendo questo il clima, non stupisce il tenore delle dichiarazioni di Amihai Eliyahu, ministro della cultura del Governo Netanyahu VI, che Domenica 5 novembre ha ventilato l’ipotesi della bomba atomica su Gaza. E ancor meno ci sorprende che, a seguito di queste vergognose esternazioni, Bibi non lo abbia affatto sollevato dal suo incarico, ma solo sospeso temporaneamente. Un buffetto, uno scappellotto bonario, tutt’al più un invito a una maggior continenza verbale, ecco.
Al di là delle parole, però, quella che continua a spaventarci è l’ostinazione sanguinaria con cui procede l’attacco israeliano in Palestina. Esso, al momento, non accenna ad arrestarsi né a diminuire d’intensità. Un possibile cessate il fuoco rallenterebbe lo sforzo bellico, spiegava la settimana scorsa Netanyahu. Le condizioni per far tacere le armi non ci sono, confermava poi il Segretario di Stato USA Blinken.
Insomma, chi vuole la pace porti pazienza: ne deve passare di sangue sotto i ponti.

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