di Shorsh Surme –
Chi alzerà per primo bandiera bianca a Gaza? E a quale prezzo? L’assalto militare israeliano in corso, che non ha risparmiato né vite né strutture civili, è più di una semplice risposta all’attacco di Hamas del 7 ottobre. A giudicare dall’entità dell’azione israeliana si sta per manifestare un cambiamento nella realtà politica sta locale.
All’indomani dell’attacco il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che la regione non sarà più la stessa. Questa affermazione ha trovato eco forte nelle capitali occidentali, che si sono affrettate ad annunciare il loro sostegno sgli sforzi per espellere Hamas da Gaza.
Oggi ci troviamo di fronte a una terribile crisi umanitaria, a una sanguinosa battaglia militare e alla prospettiva di un diverso progetto politico. Israele può realizzare la sua ambizione e spazzare via il gruppo armato come lo conosciamo, ma la causa dei diritti palestinesi restano, con o senza Hamas. Israele sarà ancora in pericolo, come dimostra la portata dell’ultimo attacco di Hamas, nonostante anni di blocco e sorveglianza da parte di Israele.
Qui vanno fatte tre importanti osservazioni. In primo luogo Netanyahu e Hamas possono essere nemici, ma sono alleati nello sforzo di contrastare il progetto di pace nella regione. In secondo luogo, nessuno dei due uscirà vittorioso da questa guerra: Hamas potrebbe perdere Gaza, mentre Netanyahu non solo rischia di perdere la presidenza del governo israeliano, ma potrebbe anche finire sotto accusa di corruzione per fatti antecedenti la guerra. Infine, per quanto mortale possa essere, questa guerra darà vita al progetto di pace.
L’espulsione di Yasser Arafat e dei suoi combattenti dal Libano segnò la fine di al-Fatah come organizzazione militare, ma Arafat seppe giocare le sue carte politiche. Si è riposizionato ed è riuscito a tornare in Palestina nientemeno che come leader dell’Autorità Palestinese, in seguito agli accordi di Oslo.
Oggi la storia potrebbe ripetersi, anche alla luce della peggiore crisi umanitaria degli ultimi cinquant’anni del conflitto israelo-palestinese.
Tra poche settimane la guerra finirà e i fronti taceranno. Poi sarà il momento della politica.
Mentre dai cieli sopra Gaza piovevano notizie bomba, Ismail Haniyeh ha lanciato lui stesso una bomba metaforica quando ha annunciato la disponibilità di Hamas ad accettare la pace sotto forma di una soluzione a due Stati. Haniyeh è ben consapevole di ciò che la guerra potrebbe nascondere in futuro. Hamas non è abbastanza forte per respingere Israele, sostenuto dagli Stati Uniti, e tanto meno senza alcun sostegno da parte dei suoi alleati. Haniyeh vuole che Hamas abbia un fronte politico che possa raccogliere i frutti degli attacchi del 7 ottobre.
Ma lui e Khaled Mashal devono prima superare un grosso ostacolo: i leader di Hamas a Gaza non riconoscono alcun ruolo ai loro pari all’estero. È addirittura trapelato che gli uomini di Haniyeh e Mashal furono rimossi dai ruoli di leadership già nel 2017, quando la leadership militare guidata da Yahya Sanwar prese il controllo del movimento.
Oggi Hamas è messo alle strette e bloccato, il che potrebbe significare un posto garantito per la sua leadership all’estero su qualsiasi potenziale tavolo negoziale in futuro. Tuttavia, con il suo ultimo attacco, il movimento ha cercato di stroncare sul nascere tali negoziati.
Ma qui sorge una sfida. Gli Stati Uniti hanno inserito Hamas nella loro lista del terrorismo, quindi qualsiasi iniziativa americana di un progetto di pace costringerà Washington a fare marcia indietro.